La legge di Fonzi
Isbn edizioni
298 pagine, € 11
ebook: € 6,99
Nella torrida e polverosa afa d’agosto una notizia appena sussurrata squarcia il torpore che avvolge gli abitanti di Monte Svevo: Nando Pentecoste detto Manicomio ha saldato il suo conto con la giustizia e sta tornando a casa. Non è affatto una buona notizia per il paese, quattro case cresciute all’ombra degli stabilimenti industriali di Taranto e Brindisi, dove un tempo la Sacra Corona Unita regnava indisturbata. Oggi Monte Svevo si regge su un delicato ed effimero equilibrio fondato sull’omertà, sulla piccola corruzione e sul malaffare locale. Basterebbe una parola per far crollare tutto. Magari da parte di si è fatto cinque anni di galera per coprire l’omicidio di un ispettore che, ficcato il naso nella fogna degli affari locali, aveva scoperto fino a che punto puzzassero. Nando Manicomio sta tornando a casa per riscuotere ciò che gli spetta: nessuno a Monte Svevo ha idea di quanto siano alti gli interessi da pagare…
Tra i buoni propositi per il 2011 avevo sbandierato l’intenzione di dedicare più spazio agli autori nostrani: un po’ perché, per un motivo o per l’altro, li ho sempre (colpevolmente?) snobbati, un po’ per pura e semplice curiosità campanilistica. Voglio toccare con mano il loro valore, verificare da me a che punto è la nostra scrittura. Sono stato fortunato: la mia incursione nella “nuova” narrativa italiana non sarebbe potuta iniziare meglio.
Terzo capitolo della trilogia “orecchiette western” (della quale non ho letto i primi 2 capitoli, ma a questo punto non mi resta altro che procurarmeli), La legge di Fonzi è un romanzo che merita di essere letto per svariate ragioni. Su tutte lo splendido lavoro dell’autore sul linguaggio, un curioso mix tra il parlato pugliese e un italiano pazientemente cesellato, fatto di termini e aggettivi ricercati, a tratti desueti: superato un certo straniamento iniziale, il risultato è sorprendente efficace.
E così, se da un lato lu governu maledetto a noialtri povera gente ce lo mette sempre ‘ngulo, dall’altro l’arsura cocente di fine agosto ammantava la distesa di pietra brulla punteggiata dai cespugli di mirto. C’è chi impone un ordine raggiando un’occhiata grigiocupa e chi pone una domanda labbreggiado coni biancastri di saliva. Ci imbattiamo in un’anziana nerovestita come una malombra e in un uomo lungocrinito. Fissiamo sguardi fessurati e occhi che sono dischi di pietra lesionata. I personaggi zufolano, deambulano, circumnavigano, scapicollano, lumano in tralice. Tendiamo l’orecchio al rantolo di una terra riarsa che aspetta ormai da mesi, invano, una goccia di pioggia, ammiriamo un arido paesaggio torchiato dalla canicola che falsa le architetture, mentre intorno a noi ondeggia la campagna funerea, gialla di stoppie, nera di restucce bruciate.
La mancanza di punteggiatura (virgolette, trattini) a separare i dialoghi (spesso, come già detto, in dialetto pugliese) dal resto contribuisce alla felice commistione tra i registri linguistici. Come dicevo sopra, se inizialmente il lettore si ritroverà spiazzato da qualche accostamento particolarmente azzardato, questo “effettto collaterale” è destinato a svanire ben presto: ciò che rimane è solo ottima scrittura.
Scrittura che, comunque, non è mai autocompiaciuta, fine a se stessa, ma spesso e volentieri al servizio di un’aspra critica sociale che non risparmia nessuno: alla fine della fiera (anzi, della giostra medievale) gli abitanti di Monte Svevo non ne escono bene, anzi. Tra piccoli truffatori, ladruncoli da quatro soldi, untuosi uomini di Chiesa, funzionari corrotti e un sindaco con le mani grondanti di sangue, per l’autore c’è solo l’imbarazzo della scelta. Scrittura che si vela spesso di una nota malinconica, scaturita dall’amore per una terra tanto dura quanto affascinante, una terra che reca su di sé le cicatrici del malaffare e dell’abusivismo selvaggio:
Qualche chilometro più giù, a est, s’intravedeva ancora la sagoma sguarnita di un cavalcavia, imprigionata tra due isolati terrapieni inguainati dalla gramigna: come un enorme sauro che avesse a lungo errato prima di crollare sfinito in mezzo al niente, quella struttura incompiuta invecchiava laggiù da più di un trentennio, a imperituro monito di ogni promessa passata, presente e futura di sviluppo della zona.
Spesso le parole più dure vengono messe direttamente in bocca ai personaggi, parole dalle quali traspare un senso di cupa e dolorosa rassegnazione a uno status quo visto come ormai immutabile, il vero male che avvelena Monte Svevo e, per estensione, il Sud del Paese, ma non solo, che tanto in Italia nessuno è colpevole per sempre, questo un paese senza memoria è…
Vagnò, lo richiamò la donna mentre riprendeva la via della porta.
Cosa? Si girò a domandare ancora il ragazzo.
No’ ti fa’ fottere.
Da chi?
Da questo posto. Sennò la stessa fine nostra fai: aspettando all’infinito che qualcuno si decide a darci indietro quello che forse noi stessi per primi abbiamo voluto farci arrùbbare…
E insomma, ok, è scritto bene, ok, c’è anche la critica sociale… ma sotto sotto, la storia c’è? Sì, la storia c’è, ed è pure una bella storia, vissuta da personaggi dai tratti volutamente esasperati ma non per questo non credibili, anzi… che si sa, di questi tempi il confine tra caricatura e realtà è piuttosto labile.
Si diceva dei personaggi: su tutti Giùanni Pentecoste detto Fonzi, la cui spettrale presenza si aggira per tutto il romanzo, eroe/antieroe che sembra uscito dritto dritto dal selvaggio West. E poi il truffatore Skùppeta, l’obeso commissario di polizia (ispirato, per ammissione dello stesso Di Monopoli, a Wiggum dei Simpson), la vecchia con un guardaroba fatto solo di vesti rigorosamente nere, rigorosamente uguali, Ronn Moss (sì, proprio Ridge Forrester di Beautiful, e vi assicuro che non ve lo domenticherete tanto facilmente): tutti dannatamente azzeccati, anche se, a dirla tutta, forse è proprio nella caratterizzazione e gestione di alcuni personaggi che è possibile ravvisare quello che, a mio avviso, è forse l’unico difetto del romanzo: una certa tendenza alla stereotipazione di alcune situazioni (penso soprattutto alla storia d’amore adolescenziale tra il ladruncolo Pisso e la bella figlia del sindaco corrotto) che stride, che riporta in basso, al già letto, al già sentito.
Ma è difetto veniale, su cui si può (anzi, si deve) passare sopra: Di Monopoli ha talento da vendere e lo vende molto bene. Se il buongiorno si vede dal mattino, ho idea che quest’anno la narrativa italiana mi riserverà delle belle sorprese.
L'incipit
Sàngu ti Giuda, e chi se lo scorda? Ancora ne parlano, mmienz' alla piazza gli anziani. Se tu alla sera esci e vai a sentire di che parlano, solo di quello parlano. Di quello e di lu governu maledetto, ca a noialtri povera gente ce lo mette sempre 'ngulo.