domenica 23 gennaio 2011

Omar Di Monopoli, La legge di Fonzi: la rat-censione

Omar Di Monopoli
La legge di Fonzi
Isbn edizioni
298 pagine, € 11
ebook: € 6,99

Nella torrida e polverosa afa d’agosto una notizia appena sussurrata squarcia il torpore che avvolge gli abitanti di Monte Svevo: Nando Pentecoste detto Manicomio ha saldato il suo conto con la giustizia e sta tornando a casa. Non è affatto una buona notizia per il paese, quattro case cresciute all’ombra degli stabilimenti industriali di Taranto e Brindisi, dove un tempo la Sacra Corona Unita regnava indisturbata. Oggi Monte Svevo si regge su un delicato ed effimero equilibrio fondato sull’omertà, sulla piccola corruzione e sul malaffare locale. Basterebbe una parola per far crollare tutto. Magari da parte di si è fatto cinque anni di galera per coprire l’omicidio di un ispettore che, ficcato il naso nella fogna degli affari locali, aveva scoperto fino a che punto puzzassero. Nando Manicomio sta tornando a casa per riscuotere ciò che gli spetta: nessuno a Monte Svevo ha idea di quanto siano alti gli interessi da pagare…


Tra i buoni propositi per il 2011 avevo sbandierato l’intenzione di dedicare più spazio agli autori nostrani: un po’ perché, per un motivo o per l’altro, li ho sempre (colpevolmente?) snobbati, un po’ per pura e semplice curiosità campanilistica. Voglio toccare con mano il loro valore, verificare da me a che punto è la nostra scrittura. Sono stato fortunato: la mia incursione nella “nuova” narrativa italiana non sarebbe potuta iniziare meglio.

Terzo capitolo della trilogia “orecchiette western” (della quale non ho letto i primi 2 capitoli, ma a questo punto non mi resta altro che procurarmeli), La legge di Fonzi è un romanzo che merita di essere letto per svariate ragioni. Su tutte lo splendido lavoro dell’autore sul linguaggio, un curioso mix tra il parlato pugliese e un italiano pazientemente cesellato, fatto di termini e aggettivi ricercati, a tratti desueti: superato un certo straniamento iniziale, il risultato è sorprendente efficace.

E così, se da un lato lu governu maledetto a noialtri povera gente ce lo mette sempre ‘ngulo, dall’altro l’arsura cocente di fine agosto ammantava la distesa di pietra brulla punteggiata dai cespugli di mirto. C’è chi impone un ordine raggiando un’occhiata grigiocupa e chi pone una domanda labbreggiado coni biancastri di saliva. Ci imbattiamo in un’anziana nerovestita come una malombra e in un uomo lungocrinito. Fissiamo sguardi fessurati e occhi che sono dischi di pietra lesionata. I personaggi zufolano, deambulano, circumnavigano, scapicollano, lumano in tralice. Tendiamo l’orecchio al rantolo di una terra riarsa che aspetta ormai da mesi, invano, una goccia di pioggia, ammiriamo un arido paesaggio torchiato dalla canicola che falsa le architetture, mentre intorno a noi ondeggia la campagna funerea, gialla di stoppie, nera di restucce bruciate.

La mancanza di punteggiatura (virgolette, trattini) a separare i dialoghi (spesso, come già detto, in dialetto pugliese) dal resto contribuisce alla felice commistione tra i registri linguistici. Come dicevo sopra, se inizialmente il lettore si ritroverà spiazzato da qualche accostamento particolarmente azzardato, questo “effettto collaterale” è destinato a svanire ben presto: ciò che rimane è solo ottima scrittura.

Scrittura che, comunque, non è mai autocompiaciuta, fine a se stessa, ma spesso e volentieri al servizio di un’aspra critica sociale che non risparmia nessuno: alla fine della fiera (anzi, della giostra medievale) gli abitanti di Monte Svevo non ne escono bene, anzi. Tra piccoli truffatori, ladruncoli da quatro soldi, untuosi uomini di Chiesa, funzionari corrotti e un sindaco con le mani grondanti di sangue, per l’autore c’è solo l’imbarazzo della scelta. Scrittura che si vela spesso di una nota malinconica, scaturita dall’amore per una terra tanto dura quanto affascinante, una terra che reca su di sé le cicatrici del malaffare e dell’abusivismo selvaggio:

Qualche chilometro più giù, a est, s’intravedeva ancora la sagoma sguarnita di un cavalcavia, imprigionata tra due isolati terrapieni inguainati dalla gramigna: come un enorme sauro che avesse a lungo errato prima di crollare sfinito in mezzo al niente, quella struttura incompiuta invecchiava laggiù da più di un trentennio, a imperituro monito di ogni promessa passata, presente e futura di sviluppo della zona.

Spesso le parole più dure vengono messe direttamente in bocca ai personaggi, parole dalle quali traspare un senso di cupa e dolorosa rassegnazione a uno status quo visto come ormai immutabile, il vero male che avvelena Monte Svevo e, per estensione, il Sud del Paese, ma non solo, che tanto in Italia nessuno è colpevole per sempre, questo un paese senza memoria è

Vagnò, lo richiamò la donna mentre riprendeva la via della porta.  
Cosa? Si girò a domandare ancora il ragazzo.
No’ ti fa’ fottere.
Da chi?
Da questo posto. Sennò la stessa fine nostra fai: aspettando all’infinito che qualcuno si decide a darci indietro quello che forse noi stessi per primi abbiamo voluto farci arrùbbare…

E insomma, ok, è scritto bene, ok, c’è anche la critica sociale… ma sotto sotto, la storia c’è? Sì, la storia c’è, ed è pure una bella storia, vissuta da personaggi dai tratti volutamente esasperati ma non per questo non credibili, anzi… che si sa, di questi tempi il confine tra caricatura e realtà è piuttosto labile.

Si diceva dei personaggi: su tutti Giùanni Pentecoste detto Fonzi, la cui spettrale presenza si aggira per tutto il romanzo, eroe/antieroe che sembra uscito dritto dritto dal selvaggio West. E poi il truffatore Skùppeta, l’obeso commissario di polizia (ispirato, per ammissione dello stesso Di Monopoli, a Wiggum dei Simpson), la vecchia con un guardaroba fatto solo di vesti rigorosamente nere, rigorosamente uguali, Ronn Moss (sì, proprio Ridge Forrester di Beautiful, e vi assicuro che non ve lo domenticherete tanto facilmente): tutti dannatamente azzeccati, anche se, a dirla tutta, forse è proprio nella caratterizzazione e gestione di alcuni personaggi che è possibile ravvisare quello che, a mio avviso, è forse l’unico difetto del romanzo: una certa tendenza alla stereotipazione di alcune situazioni (penso soprattutto alla storia d’amore adolescenziale tra il ladruncolo Pisso e la bella figlia del sindaco corrotto) che stride, che riporta in basso, al già letto, al già sentito.

Ma è difetto veniale, su cui si può (anzi, si deve) passare sopra: Di Monopoli ha talento da vendere e lo vende molto bene. Se il buongiorno si vede dal mattino, ho idea che quest’anno la narrativa italiana mi riserverà delle belle sorprese.


L'incipit
Sàngu ti Giuda, e chi se lo scorda? Ancora ne parlano, mmienz' alla piazza gli anziani. Se tu alla sera esci e vai a sentire di che parlano, solo di quello parlano. Di quello e di lu governu maledetto, ca a noialtri povera gente ce lo mette sempre 'ngulo.


mercoledì 19 gennaio 2011

Energia nucleare: l'altro spot

È con grande piacere che ricevo e amplifico il segnale lanciato oggi da Omar di Monopoli su Sartoris, abo su Twitter e molti altri in rete riguardo allo spot di Greenpeace sull'energia nucleare.
Spot che, ovviamente, in tv non passerà mai.
Si sa, da quelle parti preferiscono queste pagliacciate di propaganda.

lunedì 17 gennaio 2011

Shane Stevens, Io ti troverò: la rat-censione

Shane Stevens
Io ti troverò
Titolo originale: By Reason of Insanity
Fazi Editore
798 pagine, € 19,50
ebook: non pervenuto


Tra il luglio e l’agosto del 1973 l’America assiste terrorizzata e impotente alla carneficina compiuta da Vincent Mungo, il più spietato serial killer che ne abbia mai calpestato il suolo. Evaso dal manicomio criminale dov’era rinchiuso da pochi mesi, Mungo attraversa gli Stati Uniti da una costa all'altra, da Los Angeles fino a New York, lasciandosi alle spalle i resti di cadaveri orribilmente mutilati. Le vittime, tutte giovani donne, vengono torturate, stuprate, fatte a pezzi con una furia sanguinaria senza eguali, che affonda le radici nel tragico passato dell’uomo. Il suo è un compito superiore, una missione: la donna è il Male, lui, il cacciatore di demoni, libererà il mondo dalla sua abominevole presenza.
Mentre la scia di sangue diviene giorno dopo giorno sempre più densa, l’opinione pubblica, sconvolta dalla mattanza, inizia a chiedersi perché nessuno riesca a fermarlo. Già: perché nessuno riesce a seguire le tracce di Mungo? Perché, nonostante le sue fotografie tappezzino ormai i muri di decine di città, nessuno lo ha mai avvistato? Perché la polizia, impegnata nella più estesa caccia all’uomo mai dispiegata sul suolo americano, non ha la più vaga idea di come prevedere la sua prossima mossa?
Semplice: perché l’uomo che si sta prendendo gioco di tutti loro, il più feroce serial killer della storia d’America, non è Vincent Mungo.


Ci sono tre cose che non mi sono piaciute di questo romanzo: la prima, nonché più grave di tutte, è l’imperdonabile ritardo con cui il capolavoro, sì, lo dico senza pudore, capolavoro di Shane Stevens è stato pubblicato in Italia. Sono passati più di trent’anni da quando By Reason of Insanity, con largo anticipo rispetto a riconosciuti caposaldi del genere come Il silenzio degli innocenti, Il collezionista di ossa o American Psycho, ha inaugurato il filone dei serial killer letterari negli Stati Uniti. Un plauso a Fazi per averci consegnato un romanzo di tale importanza, ma una dolorosa tirata d’orecchi a tutta l’editoria italiana per avercene privato per tutto questo tempo.
La seconda e la terza riguardano proprio l’edizione italiana: il titolo, Io ti troverò, è quanto di più banale si possa immaginare e non rende minimamente giustizia all’originale, ben più significativo; e la copertina è totalmente fuori contesto (vorrei che qualcuno mi spiegasse da dove viene l’idea della macchina, dato che non trova alcun riscontro nel romanzo).
E basta.

Io ti troverò è un viaggio nella follia di una mente tanto disturbata quanto lucida e implacabile: Stevens ci conduce per mano in un tortuoso e oscuro labirinto di perversioni mentali che si proiettano all’esterno in una carneficina senza pari. Ci mostra ciò che resta così come farebbe una guida turistica con le rovine dei fori imperiali. La scrittura si fonde con la cronaca, con i nudi fatti: non c’è alcun giudizio morale, nessuna presa di posizione ideologica. L’assoluta naturalezza con cui ci vengono presentati i dettagli più raccapriccianti ci spiazza, ci sbatte in faccia il fatto che stiamo per assistere a qualcosa di orribilmente vero, tangibile, reale. Leggete qui: dopo anni di cinghiate, sevizie, torture fisiche e umiliazioni psicologiche, anni trascorsi in “un mondo in cui la crudeltà imperversava, il dolore era la norma e la morte era una liberazione”, colui che terrorizzerà gli Stati Uniti uccide sua madre. Aveva dieci anni:

A settembre Sara comprò una frusta. Disse al negoziante che pensava di comprarsi un cavallo. Lui le disse che avrebbe dovuto acquistare prima il cavallo, ma Sara comprò solo la frusta.
Quell’anno l’inverno venne presto. Sara e il bambino rimasero quasi sempre a casa e nella grande stufa a legna il fuoco bruciava vivace. La sua mente spesso vagava: a volte non riconosceva il bambino, a volte lo chiamava con altri nomi […] Le frustate divennero più frequenti.
Poi, una sera di fine dicembre, la mente del bambino si spezzò. Mise sua madre, ancora cosciente, nella stufa a legna e rimase a guardarla bruciare. Osservò il suo corpo sfrigolare e bruciare sino a mostrare il bianco delle ossa.

Tre righe. In tre righe Stevens condensa l'orrore assoluto, posa la prima pietra di una costruzione che, dopo essere rimasta incompleta per molti anni, riprenderà a crescere a ritmo indiavolato dopo la fuga del killer dall’istituto psichiatrico.

Ma non è solo nell’ottima scrittura che risiede la grandezza del romanzo: è la struttura, il ritmo, la gestione dei temi dell’azione, delle pause, delle accelerazioni. La consapevolezza dell’insieme. Stevens dipinge pazientemente, pennellata dopo pennellata, un quadro complesso e affascinante, in cui il serial killer è solo una delle componenti. Sono molti i personaggi che popolano infatti il romanzo, ognuno dei quali è costruito con mano sicura e tratteggiato con grande cura per il dettaglio: a ciascuno di loro è affidato un ruolo ben preciso nella macchina narrativa, ingranaggi pazientemente oliati e messi a disposizione del lettore.

Ottima, davvero ottima la gestione dei piani narrativi e dei punti di vista: la viva e tangibile tridimensionalità dei personaggi, il loro costruirsi dialogo dopo dialogo, pagina dopo pagina, è lo schema di montaggio che ci viene offerto, così che ogni ingranaggio possa essere inserito al posto giusto, nel momento giusto. E così, oltre alla vicenda principale si dipanano quelle “secondarie”, sempre comunque funzionali all’economia del romanzo e punto di partenza per riflessioni su temi di grande rilevanza sociale e mediatica che in quegli anni accendevano gli animi della popolazione: su tutti il dibattito sulla pena di morte, inaugurato e cavalcato a seconda delle necessità in seguito all’esecuzione di Caryl Chessman, il famigerato (e realmente esistito) bandito della luce rossa, stupratore seriale per molti e vittima sacrificale per altri. Un'esecuzione che sarà la scintilla da cui tutto avrà inizio.

Tra spregiudicati politicanti assetati di potere, detective frustrati, giornalisti più o meno invischiati in affari sporchi ed ex detenuti più o meno redenti, nella seconda parte del romanzo emerge l’ingombrante figura di Adam Kenton, reporter investigativo assoldato dal Newstime per trovare l’assassino prima della polizia. È lui il secondo, grande polo magnetico attorno al quale tutto converge, l’alter ego del killer, il suo più spietato cacciatore e forse l’unico in grado di capirne la contorta e tormentata psiche. L’assoluta e maniacale dedizione con cui si dedica a una missione ritenuta dai più impossibile è seconda solo a quella che il Diavolo della California dedica alle sue vittime e al suo delirante piano di purificazione del mondo, specchio di una sete di potere che, in fin dei conti, è il motore di tutte le vicende che si intrecciano nel romanzo.

Ma, ovviamente, il mattatore è lui, Vincent Mungo, o, come solo noi sappiamo fin dall’inizio, Thomas Bishop. Raramente mi è capitato di incontrare un personaggio dotato di tanta potenza narrativa. Da qualche parte mi sembra di aver letto che Thomas Bishop è Hannibal Lecter come se fosse stato descritto da Truman Capote. Vi assicuro che è molto di più.


L’incipit
Le fiamme divorarono avidamente il corpo, consumando e dilaniando la carne e i muscoli. Sfaldata, poi annerita e carbonizzata, la pelle si disintegrò rapidamente. Braccia, gambe e torso si sarebbero presto ridotti a un mucchio di ossa sbiancate dalle fiamme. E, a tempo debito, la testa, privata dei tratti somatici, sarebbe divenuta simile a un teschio.
In silenzio, se non per quel gemito cantilenante che gli risaliva dal fondo della gola, il ragazzo, con gli occhi folli illuminati dal rosso bagliore delle fiamme, osservava il corpo che bruciava, bruciava, bruciava…

domenica 9 gennaio 2011

Appaloosa: la rat-censione

In seguito alla morte dello sceriffo Jack Bell, freddato insieme ai suoi vice da un fuorilegge locale, la cittadina di Apploosa è piombata nell'anarchia: sotto la costante minaccia delle armi, la popolazione assiste impotente alle angherie della banda di balordi capeggiata da Randall Bragg (Jeremy Irons) che, sbarazzatosi di Bell, spadroneggia nella zona a suo piacimento. Per ripristinare l’ordine il sindaco affida la città alle cure di Virgil Cole (Ed Harris) ed Everett Hitch (Viggo Mortensen), coppia di mercenari al soldo di chiunque abbia abbastanza denaro (e fegato) per mettersi al loro servizio. Il nome di Virgil Cole risuona nel deserto come il richiamo di un coyote affamato: la sua fulminea rapidità con la pistola e i suoi metodi poco ortodossi fanno già parte della leggenda del west. Ottenuta dal sindaco carta bianca per agire a suo piacimento, Virgil impone la sua legge su Appaloosa con l’obiettivo di consegnare Randall Bragg al patibolo. Ma quando in città arriva la bella Ellie Franch (Renée Zellweger) i suoi piani sono destinati a complicarsi.

Ho sempre avuto un rapporto di amore/odio con il western. Da un lato subisco l’abbagliante fascino del suo immaginario: gli spazi sconfinati, le polverose strade che li attraversano, la terra riarsa da un sole implacabile, una terra che si offre, dura e spigolosa come la pietra, ai pionieri, uomini di poche parole come la silenziosa prateria che li circonda. Il fascino della scoperta, del viaggio, dell’avamposto, dei duelli, di una sopravvivenza in bilico tra la legge dell’uomo e quella del deserto. Un mondo in cui ogni cosa va conquistata, battezzata, costruita. Dall’altro faccio fatica ad accettare l’ipertrofica ripetizione di topoi, situazioni, personaggi che troppo spesso si sovrappongono l’un l’altro, col risultato di andare a formare un’unica, grande sceneggiatura che, con qualche minima variazione sul tema, tende a ripetersi all’infinito.

Il film di Ed Harris, qui nella doppia veste di attore e regista, mi riconcilia col genere, e lo fa innestando su un impianto scenografico e narrativo molto classico (la banda di fuorilegge che spezza il fragile ordine di un avamposto nel selvaggio west e i giustizieri mercenari pronti a ripristinarlo) una singolare storia di amicizia tra due uomini la cui gelida imperturbabilità nasconde insospettabili turbamenti.

Virgil Cole è il classico “eroe western” tutto d’un pezzo, mente lucida e riflessi fulminei, l’incedere sicuro di chi sa di poter vincere ogni duello al primo sguardo. Eppure… eppure l’imperscrutabile Virgil Cole soffre di una forma di dislessia che lo costringe a chiedere l’aiuto del compare quando “non gli viene una parola”. Eppure Virgil Cole, incorruttibile sceriffo dagli occhi di ghiaccio, nasconde forse il desiderio di porre fine al suo eterno vagabondare e di accasarsi. Forse proprio qui, ad Appaloosa. Forse con Ellie, la pianista da poco giunta in città. Il suo desiderio è presto esaudito, troppo presto. Ellie si dimostra donna volubile, alla disperata ricerca di qualcuno che possa offrirle protezione fisica e sicurezza economica. Se sarà Virgil a poterle dare tutto ciò tanto meglio. Ma se arrivasse un altro gallo nel pollaio…

Assistiamo così al consolidamento della sua immagine di uomo di legge disposto a tutto pur di raggiungere l’obiettivo prefissato, ma anche al progressivo disgregarsi di qualche certezza, a repentini lampi di smarrimento in uno sguardo altrimenti imperscrutabile. E così Virgil Cole, ruvido sceriffo scolpito nella roccia del deserto, mostra il fianco al suo essere imperfetto, corruttibile, umano. E, come tale, bisognoso di affermare la propria individualità nel rapporto con un suo simile: Everett Hitch, ex soldato e inseparabile compagno di peregrinazioni, amico e confidente, consigliere e guardia del corpo.

Ed è proprio nel rapporto tra Virgil ed Everett che risiede gran parte della potenza del film, un western “moderno” che fa delle dinamiche sociali e personali più che del fascino della Frontiera le sue armi migliori. Beninteso, gli appassionati del western “classico” ritroveranno gran parte dei temi a loro cari: duelli, sparatorie, inseguimenti, risse da saloon, il sole che acceca lo sguardo e secca la pelle, la terra selvaggia che si perde all’orizzonte. Perfino indiani e messicani. Ma Harris stupisce: inserisce l’elemento di disturbo, apre qualche piccola crepa qua e là, mette in bocca ai protagonisti lo scambio di battute che non ti aspetti. 

Splendidi davvero i dialoghi, intrisi di pungente ironia e mai scontati, e altrettanto splendide le interpretazioni di un cast in forma smagliante (Harris e Mortensen ci regalano una coppia di personaggi che sarà ricordata a lungo), impreziosito dalla performance di una Renée Zellweger che si cala alla perfezione nella parte della donna apparentemente fragile, ma che sa perfettamente chi e cosa vuole, e come ottenerlo. Forse più “classica” la figura di Bragg nel suo essere villain a tutto tondo, ma Harris si diverte a giocare anche con lui, sparigliando le carte in tavola quando forse lo spettatore non se lo aspetta più.

Una regia pulita ed essenziale, ma non per questo emotivamente arida, e una fotografia di grande impatto completano il comparto tecnico di un film il cui risultato finale supera di gran lunga la somma delle sue parti: lunga vita al western.

sabato 8 gennaio 2011

Sony PRS-650: la rat-censione (una settimana da eReader, parte seconda)

La rat-censione del Cybook Opus è tuttora uno degli articoli più letti qui nella Tana. In generale, i miei post a tema eBook, editoria digitale & affini hanno portato al blog discreti picchi di visite: l’argomento “tira”, e a me, convinto sostenitore della “rivoluzione digitale” in ambito libresco, la cosa fa molto piacere, molto più piacere di qualche centinaio di click in più o in meno (che comunque servono a pompare un po’ di autostima nelle vene del mio ego, sempre bisognoso di rassicurazioni!).

Il Sony PRS-650 è il mio secondo eBook reader: per ovvi motivi non includo nella statistica l’iPad, in favore del quale avrei comunque più di una lancia da spezzare. Tuttavia, per motivi altrettanto ovvi l’esperienza di lettura su un tablet retroilluminato non è minimamente paragonabile a quella offerta da un reader con tecnologia eInk. Ma trattasi di trite banalità: sorvoliamo e vediamo di addentrarci in dettaglio nell’analisi dell’ultimo nato della casa di Tokyo.

Innanzitutto, perché questo lettore e non, che so, il nuovo Booken Orizon? Semplice: insieme al Kindle di Amazon, il PRS-650 (e il 350, suo fratellino minore) è l’unico eBook reader sul mercato dotato di schermo eInk Pearl. eInk Pearl significa maggiore contrasto, sfondo più bianco, caratteri più definiti: in sostanza, i nuovi schermi Pearl offrono un’esperienza di lettura ben più confortevole e simile a quella su carta rispetto ai “vecchi” Vizplex o, peggio ancora, ai nuovi SiPix (sfruttati per esempio dall’Orizon). Perché possiate farvi un’idea un po’ più precisa di quello di cui sto parlando, vi rimando a questo articolo apparso qualche settimana fa su eBookReader Italia.

eInk Pearl vs. SiPix vs Vizplex: and the winner is... c'è bisogno di dirlo?

Notate la differenza di contrasto e definizione tra un pannello Pearl
e uno SiPix: Bookeen, era meglio se ti tenevi i Vizplex!

Perché il PRS-650 e non il Kindle? Perché il Kindle è Amazon nel bene e nel male, e non ho proprio voglia di essere costretto a convertire ogni singolo ePub nel kindleformato, né di essere giocoforza legato a un singolo store: grazie, ci pensa già mamma Apple a farmi il lavaggio del cervello!

E infine: perché il 650 e non il 350? Perché leggere su uno schermo da 6” è meglio che farlo su uno da 5: parlo per esperienza personale. Soddisfatti? Bene, procediamo.

Il primo impatto con il reader è ottimo: rispetto al mio vecchio Opus, il PRS-650 si dimostra subito più solido e meglio rifinito. La scocca (nera, nel mio caso), concepita per offrire una presa salda e sicura anche con una mano sola, è robusta e compatta e ospita, sul lato superiore, il tasto di accensione, lo slot per la scheda SD e quello per il pennino. Sul lato inferiore troveremo invece l’attacco miniUSB, quello per gli auricolari e i tasti di regolazione del volume: il PRS-650 può svolgere infatti anche la funzione di lettore mp3. Completano il corredo “fisico” la classica pulsantiera presente su tutti i reader di mamma Sony e uno schermo da 6” sorprendentemente bianco.

Come già detto in precedenza, all’accensione si nota immediatamente la qualità superiore del pannello Pearl e l’assenza del peggior difetto dei vecchi schermi Sony, quel fastidiosissimo effetto riflettente (colpa di una pessima implementazione della tecnologia touchscreen) che rendeva molto difficoltosa la lettura sotto luce diretta. Difetto che, fortunatamente, è stato completamente corretto nei reader di ultima generazione.

L'homepage del PRS-650
Il menu è semplice e intuitivo, nella miglior tradizione della casa giapponese: diviso in tre sezioni principali (Home, Applicazioni e Impostazioni), permette un rapido accesso a tutte le funzioni principali (tra le quali l’utilissima possibilità di consultare tutte le nostre annotazioni direttamente dall’homepage, senza dover scartabellare tra i menu). Tra le applicazioni, oltre al già citato lettore mp3, sono presenti anche un visualizzatore di immagini (ovviamente in scala di grigi), un programma di scrittura manuale tramite pennino e un ottimo sistema di dizionari (ne sono presenti 11), che si integra ovviamente con gli eBook.

Ma passiamo all’esperienza di lettura vera e propria, che poi è l’unica cosa che ci interessa davvero. Come si legge sul PRS-650? Bene, anzi, benissimo: non solo grazie al pannello Pearl, di cui non smetterò mai di tessere le lodi, ma anche grazie a un touchscreen sorprendentemente reattivo, sia tramite pennino sia tramite dito. Il refresh dello schermo non è ancora ottimale, ma si tratta sicuramente di un passo avanti rispetto ai reader di vecchia generazione da me visti all’opera. Le pagine possono essere girate sita tramite gli appositi pulsanti situati al di sotto dello schermo, sia “sfogliando” con il dito. Ovvio, non essendo un pannello multitouch l’esperienza è ben diversa da quella offerta da iPad, ma si tratta comunque di una comodità in più che non fa mai male, anzi.

Cliccando due volte su un termine si aprirà automaticamente un’anteprima della definizione tratta dal dizionario preselezionato (ma è possibile cambiarlo in corsa): cliccando poi sul pulsante del dizionario si aprirà la pagina intera, con la dfinizione estesa. È inoltre possibile cercare altre occorrenze di quel termine all’interno del testo o creare una nota veloce, sia scrivendo a mano col pennino sia attivando una tastiera virtuale (non molto reattiva a dir la verità).

Premendo il tasto “options” si accede poi a tutta una serie di funzioni complementari, dall’aggiunta di segnalibri alla gestione e consultazione delle note prese in precedenza (o alla creazione di nuove annotazioni), dall’accesso all’indice e alla cronologia delle pagine visitate alla regolazione del contrasto e delle definizione del testo. Come tutti i principali reader sul mercato (o almeno credo), il PRS-650 offre inoltre la possibilità di leggere in landscape mode.

Il tasto + è invece deputato alla scelta della dimensione del carattere (ma la differenza tra “Small” e “Medium” è troppo marcata, un aggiornamento firmware sarebbe cosa gradita), allo zoom della pagina e ad altre opzioni di visualizzazione. Non è possibile invece modificare il font (il reader visualizzerà automaticamente quello embeddato nel file) né l’interlinea, utile opzione offerta invece dal Kindle.

In definitiva il PRS-650 è un ottimo prodotto, forse il miglior eRader attualmente sul mercato: se siete in procinto di gettarvi a capofitto nel magico mondo dell’eBook e avete 250 euro da spendere (ai quali ne vanno aggiunti altri 30 se vorrete dotare il vostro pargolo di una custodia degna, dato che in dotazione non ce n’è nemmeno una in cartapesta), andate a botta sicura, non ve ne pentirete. Se invece il vostro budget è più limitato, allora vi consiglio il Kindle: vero, c’è qualche sbattimento in più da fare, ma il rapporto qualità/prezzo che offre è al momento senza eguali.



Ah, dimenticavo: fatta eccezione per il PRS-950, disponibile solo sul mercato americano, come tutti i reader Sony nemmeno il PRS-650 è dotato di connessione wireless, tantomeno di 3G. Personalmente la cosa non mi disturba affatto: navigare su uno schermo eInk è follia pura, e la possibilità di poter acquistare gli eBook direttamente dal lettore è un optional di secondaria importanza.

giovedì 6 gennaio 2011

dotEPUB

Breve post per segnalarvi un'utilissima applicazione: sono sicuro che molti di voi la conoscono già, ma non si sa mai.
L'app in questione si chiama dotEPUB e il suo funzionamento è semplicissimo: basta un semplice clic e la pagina web attualmente aperta sul vostro browser (l'estensione terrà conto solo del corpo di testo principale) verrà convertita in un file .epub, così da poter essere consultata in un secondo momento su un qualsiasi reader.
Utilissima per leggere articoli o post particolarmente lunghi senza cavarsi gli occhi davanti al monitor, l'applicazione può essere installata in 3 diverse modalità:
  • Bookmarklet per browser: basta trascinare il logo dotEPUB presente nell'header della pagina ufficiale direttamente nella barra dei preferiti del vostro browser. Quando vorrete salvare un contenuto in un file .epub basterà cliccare sul bookmark e il gioco è fatto. Di seguito un piccolo video dimostrativo.
  • Estensione per Google Chrome, installabile direttamente da questa pagina del Chrome Web Store.
  • Widget per pagine web: sul sito di dotEPUB è possibile "prelevare" il codice direttamente dal sito di dotEPUB.