sabato 26 marzo 2011

William Faulkner, Mentre morivo: la rat-censione

William Faulkner
Mentre morivo
Titolo originale: As I Lay Dying
Edizione: Gli Adelphi 
232 pagine, € 9

Addie Bundren sta morendo: riuniti intorno al suo capezzale, il marito Anse e i cinque figli si preparano a trasportarne la salma nella lontana Jefferson, contea natale della donna, rispettando così il suo desiderio di essere sepolta nella sua terra. Caricata la bara su uno sgangherato carro che sembra sempre sul punto di cadere a pezzi, i Bundren si mettono in viaggio. Ma il carro non è l’unico a rischiare di sgretolarsi: l’odissea verso Jefferson, funestata da un diluvio che mette fuori uso strade e ponti e accompagnata dall’odore di morte che emana il cadavere, diviene un catalizzatore di sventure e fa esplodere tensioni e contraddizioni che lacerano i personaggi, ognuno depositario di un doloroso segreto, ognuno corroso da sopiti rancori e inconfessabili desideri.


Mentre morivo è un romanzo dalla complessità a tratti disarmante: al di là del continuo ricorso a elementi simbolici che sicuramente ho colto solo in minima parte (a partire dalla scelta del titolo, a quanto pare un esplicito riferimento all’Odissea omerica), è il modo in cui è strutturato a rappresentare una sfida per il lettore. Come scrive Alfredo Giuliani in quarta di copertina della presente edizione, La struttura e lo stile di Mentre morivo esercitano un fascino, a volte esasperante, soltanto se il lettore accetta la sfida di mettere in atto tutta la sua disponibilità percettiva. Bisogna cogliere insieme l’assurdo, il comico, il simbolico, l’inconcluso, la ridicolaggine che incombe sulla tragedia, l’enigma, che non si risolve. 

Su un canovaccio di base semplice e lineare si innesta appunto una complessa struttura narrativa che fa del flusso di coscienza e del continuo intrecciarsi di monologhi il mezzo con cui imprigionare il lettore nelle maglie del racconto. I pensieri dei personaggi, le loro paure, i loro malcelati e meschini obiettivi personali, giungono a noi a briglia sciolta, senza filtro alcuno: ci investono con la stessa forza con cui il fiume spazza via il ponte che dovrebbbe permettere ai Bundren di giungere a Jefferson prima che il cadavere di Addie inizi ad attirare uno stormo di famelici avvoltoi. Le difficoltà linguistiche, se così possiamo definirle, non finiscono qui: i Bundren sono infatti rozzi bifolchi, e come tali parlano e pensano. Prendiamo Vardaman, il bambino cui viene sbattuta in faccia la morte. Mettetevi nei suoi panni: come potrebbe reagire? Come potrebbe elaborare lo shock? Come potrebbe esprimere a parole l’orrore di cui è testimone? (Mia madre è un pesce)

Ma vediamo di conoscere meglio i Bundren. Partendo proprio da Addie, colei che ha sacrificato se stessa a un uomo che non ha mai amato e a cui ha dato quattro figli perché così doveva essere, perché questo è ciò che ci si aspettava da lei. Il quinto, Jewel, emblematicamente prediletto, è frutto di un tradimento mai confessato. L’unico monologo che la vede protagonista è un’appassionata e dolorosa difesa “linguistica” della donna, il cui sangue si fonde con la terra, la sola in grado di identificare le cose e il dolore col loro vero nome tanto da non aver alcun bisogno di nominarli; all’estremo opposto l’egocentrismo maschile, che si spinge fino al punto di dover inventare dei termini per tentare di dare forma a ciò che non conosce. Ne riporto uno stralcio:

Così mi presi Anse. E quando mi resi conto di avere Cash, mi resi conto che vivere era terribile e che quella era la risposta. Fu allora che capii che le parole non servono a nulla; che le parole non corrispondono mai neanche a quello che tantano di dire. Quando nacque mi resi conto che maternità era stata inventata da qualcuno che doveva trovarle una parola perché a chi i bambini li ha avuti non gli importava nulla se c’era una parola o no. Mi resi conto che paura era stata inventata da qualcuno che non aveva mai avuto paura; orgoglio, da qualcuno che di orgoglio non ne aveva mai avuto… Anche lui [Cash] aveva una parola. Amore, lo chiamava. Ma era da un pezzo che avevo fatto l’abitudine alle parole. Sapevo benissimo che quella parola era come tutte le altre: semplicemente una forma per riempire un vuoto; che quando fosse venuto il momento, non ci sarebbe satto bisogno di una parola, per quello, più che per l’orgoglio o per la paura.
C'è Anse, il capofamiglia inetto e cocciuto come un mulo, che metterà a rischio l’incolumità di tutta la famiglia pur di tenere fede alla promessa di seppellire la moglie nel suo paese natio. Una promessa che è più un ingombrante fardello di cui liberarsi a ogni costo che un doloroso pegno d’amore.

C’è Darl, il reduce di guerra, l'unico a essere uscito dalla contea di Yoknapatawpha. Darl è istruito, Darl è diverso. A lui Faulkner affida lo spazio più ampio e le rifessioni più lucide. Una lucidità che, consapevole della totale assurdità della situazione, sfocia ben presto in un tragicomico distacco e nella follia, reale o presunta. Perché nessuno di noi è del tutto pazzo e nessuno del tutto normale finché il resto della gente lo convince ad andare in un senso o nell’altro. E’ come se non fosse tanto quello che uno fa, ma com’è che lo guarda la maggioranza di noi quando lo fa.

E Cash, che asse dopo asse, chiodo dopo chiodo, costruisce pazientemente la bara in cui riposerà il corpo della madre, proprio sotto i suoi occhi, secondo il suo volere. Il rumore della sua sega accompagna tutta la prima parte del racconto, come un messaggero di morte imminente che incombe sulla casa.

Ci sono Jewel, il mezzosangue orgoglioso e ribelle, e Dewey Dell, unica femmina, rimasta precocemente (e segretamente) incinta, desiderosa di liberarsi al più presto del fardello che porta in grembo, senza peraltro avere la minima idea di come sia possibile farlo. E, infine, il piccolo Vardaman, davanti ai cui occhi l’orrore assume la sua forma più cruda e tangibile, come le viscere di un pesce.

Ognuno di loro ci racconta una storia che diviene tante storie: la storia di un dolore condiviso e le storie di singoli segreti meschini ed egoistici. Ognuno di loro calpesta una terra spietata che non offre riparo né consolazione a chi nasce sconfitto. Ognuno di loro è a suo modo testimone e narratore di un’odissea in cui il tragico si fonde col comico, l’assurdo col grottesco.

E poi c’è la scrittura di Faulkner, mimetica e viscerale. Una scrittura densa, ad ampie pennellate, a tinte forti, accese, che dipingono sulla pagina immagini di rara potenza drammatica ed evocativa. Non ho avuto modo di confrontarmi con il testo originale, ma mi sembra che la difficile sfida rappresentata dalla traduzione sia stata affrontata da Mario Materassi con una cura e una passione encomiabili.

Dicevo nel post precedente che mi sarebbe piaciuto riuscire a trasmettere non tanto ciò che Mentre morivo mi ha comunicato, quanto il modo in cui l’ha fatto. Mi rendo conto di essermi posto un obiettivo un po’ troppo ambizioso: spero di avervi invogliato, anche solo incuriosito, a scoprire un romanzo straordinario e un autore di cui sono certo che tornerò a parlare presto su queste pagine.

domenica 20 marzo 2011

Coming Soon

Solita storia: lo scrivo qui, pubblicamente, così potrete insultarmi se non manterrò l'impegno preso.
In settimana mi dedicherò alle rat-censioni di due romanzi che, per un motivo o per l'altro e a livelli assai differenti, mi hanno colpito molto.
Il primo, che avevo già avuto il piacere di leggere in lingua originale, è I vermi conquistatori, di Brian Keene. Dato che non lo rat-censii la prima volta, credo sia giusto farlo ora.
Che Faulkner sarebbe senza una pipa?
La seconda rat-censione in programma è più complicata: Mentre morivo mi ha aperto un mondo, quello di William Faulkner e della sua narrativa, che ho intenzione di esplorare in lungo e in largo. Sarebbe bello poterlo fare insieme su queste pagine, in modo molto terra-terra eh, che non ho certo pretese di confrontarmi con la vastissima e dottissima critica della sua opera. Mi accontenterei di riuscire a trasmettervi, anche solo parzialmente, non tanto ciò che questo romanzo mi ha comunicato, quanto il modo in cui l'ha fatto: sarebbe già una grande soddisfazione.
Ah, dimenticavo: qualche giorno fa ho visto Black Swan. Devo ricredermi: Natalie Portman sa recitare. Ma la Jennifer Lawrence di Winter's Bone è altra cosa.
See you soon.

martedì 8 marzo 2011

Le Cronache del Ratto emerso: Ebook Lab Italia, day 2

Come molti di voi sanno, venerdì 4 marzo ho partecipato alla seconda giornata di Ebook Lab Italia. Lungi dal limitarsi al piccolo recinto di casa nostra, la mostra-convegno organizzata da Simplicissimus Book Farm ha gettato uno sguardo a 360° su conquiste più o meno acquisite e prospettive future dell’eBook e su un mercato in cui tutti hanno qualcosa da dire, ma in cui nessuno, o quasi, dispone ancora di solide certezze.

Al di là del minimo comune denominatore rappresentato ovviamente dall’ebook, mi sembra che, all’interno di un panorama alquanto variegato, ciò che abbbia davvero accomunato esperienze e testimonianze anche molto distanti tra loro siano stati la passione e l’entusiasmo dimostrati da tutti i partecipanti. Nelle nebbie dell’ebook si avanza un po’ a tentoni, saggiando il terreno, ma lo si fa insieme, con tanta voglia di esplorare e sperimentare. Quella voglia di esplorare e sperimentare che ancora fa difetto all’approccio di molta “grande” editoria, spesso arroccata in una strenua difesa dello status quo, quello status quo che le ha permesso di monopolizzare mercato e librerie. Ma, per citare le parole del Duca (autore di un intervento originale, spontaneo e, soprattutto, opportuno: per chi non ha avuto la fortuna di seguirlo, qui e qui due video non ufficiali), a Libroshima gli scaffali delle librerie scompaiono, le leggi della fisica (se in uno scaffale ci stanno 100 libri, per quanto tu spinga non ce ne entreranno mai 200) non valgono più e gli autori si autopubblicano. Come competere con questa massa informe di presuntuosi scribacchini da 4 soldi? Con la qualità.

Ecco, se dovessi individuare un punto su cui tutti, ma proprio tutti (beh, magari non proprio TUTTI) si sono trovati d’accordo, è la necessita di offrire qualità.

In un mercato in cui, privato del supporto fisico, il valore percepito del contenuto è vertiginosamente precipitato, non ha senso pompare artificialmente i prezzi alti o imbrigliare la diffusione dei contenuti tramite medievali cinturoni di castità. Gli editori devono capire che, per stabilire il prezzo dell’ebook, il termine di paragone non è quello del cartaceo. Il termine di paragone è la diffusione gratuita. Il termine di paragone è zero. Se il guadagno proveniente dalla singola “copia” diminuisce, come rimediare? Con la qualità. Qualità dei contenuti, ma anche del servizio offerto e dei servizi correlati alla vendita del prodotto.

Per citare Maria Cecilia Averame, aka Miss Quintadicopertina, “l’editore digitale deve essere impeccabile, identificabile, fortemente caratterizzato, differente”. Il suo nome e il suo marchio devono ispirare fiducia nel lettore, devono essere sinonimo di qualità: solo così potrà imporsi in un mercato in cui uno scribacchino qualunque può autopubblicarsi su Amazon, vendere il proprio mediocre romanzetto a 1 euro e guadagnarne 2.000 al mese.

Ma sto divagando, cerchiamo di andare con ordine. Cosa si diceva? Ah sì, Ebook Lab Italia :-)
La giornata è stata inaugurata da Paola Dubini, docente di economia all’Università Bocconi di Milano, che si è concentrata sui modelli di business per quotidiani e periodici digitali. In sostanza, si è parlato di piattaforme, servizi correlati, modalità di accesso ai contenuti e della necessità per l’editore di non replicare sul digitale la filiera della produzione cartacea. Niente di particolarmente nuovo, c’è da dire che in 20 minuti non è che si potesse approfondire più di tanto un tema tanto vasto e dispersivo.

Più stimolante e ricco di spunti l’intervento di Samford Forte, direttore di Flat World Knowledge, innovativo progetto di editoria digitale applicata alla scolastica il cui scopo è di mettere a disposizione degli studenti materiali didattici di qualità, selezionati da docenti di comprovata esperienza, dai quali sia possibile attingere per modellare una serie di “dispense” digitali personalizzate. Semplificando al massimo: io, docente, preparo i materiali e li carico sul portale. Tu, studente, accedi al portale, cerchi ciò che ti serve, componi la tua dispensa, aggiungi annotazioni, commenti, scarichi il tutto in epub o, tramite il print on demand, ti fai stampare la tua copia personalizzata. Parola d’ordine: Openess. Le 4 R dell’Openess: Reuse, Redistribute, Revise, Remix. Oltre all’estrema praticità del tutto, i benefici in termini economici sarebbero enormi: lo studente potrebbe infatti disporre di materiali costantemente aggiornati, non trovandosi quindi costretto ad acquistare costose nuove edizioni anno dopo anno. Nonostante le richieste di chiarimento da parte del pubblico, non mi è ancora ben chiara la sostenibilità economica di tutta la faccenda: si è parlato di generici contributi statali (beati gli yankee) e di sponsor ma, dettagli a parte, Flat World Knowledge è un progetto che merita massimo supporto e attenzione.

Dopo il coffee break è giunto finalmente il momento del Duca: inutile dire che, al di là di qualche comprensibile esitazione del relatore dovuta all’emozione del momento, addentrarsi nei territori postapocalittici di Libroshima è stata una delizia per tutti gli affezionati lettori di Baionette Librarie, ma non solo. Oltre a un paio di repentine e dolorose stilettate nei confronti di Fazi e Mondadori, dei quali è stato aspramente contestato l’atteggiamento sprezzante nei confronti del lettore (anzi, del consumatore), l’analisi comparata del mercato dell’ebook in America e in Italia è stata come sempre puntuale e documentata. Niente aria fritta insomma: il Duca ha decisamente colpito nel segno. Se desiderate approfondire gli argomenti trattati nel suo intervento, potete farlo qui.

Il resto della mattinata è stato dedicato alla “forma” dell’eBook, al layout insomma. Ma non pensiate che ci si sia limitati a parlare di margini, interlinea e “polliciaggio” :-). Oh no. Abbiamo avuto l’onore di assistere alla lezione, anzi, alla Lectio Magistralis, di Enrico Tallone, poeta del font, cantore dell’arte tipografica. La sua retrospettiva su storia ed evoluzione del carattere tipografico, durante la quale sono state coniate alcune immortali perle di saggezza che nessuno di noi dimenticherà tanto facilmente, si è conclusa con gli applausi a scena aperta di tutta la platea. Grazie Enrico. E grazie anche a Matteo Balocco, Davide Casali e Vladimir Carrer: i vostri interventi sono stati davvero preziosi.

Una menzione particolare per il workshop in pausa pranzo tenuto da Maria Cecilia Averame, la già citata mente dietro al progetto Quintadicopertina. Come detto su Twitter (a proposito: l'idea del Twitter Wall sulla parete opposta al palco è stata geniale) avrebbe meritato uno spazio più ampio nella sala principale. E' stato comunque un piacere assistere al suo intervento, quantomeno per rendersi conto della serietà e della passione alla base del progetto.

Subito dopo l’abbuffata, la conferenza tenuta da Bill McCoy, direttore esecutivo di IDPF, ha fatto registrare il pienone: la dimostrazione delle potenzialità di ePub3 ha calamitato l’attenzione di tutti, e a buona ragione. L’evoluzione dello standard aperto per gli ebook porta grandi novità e miglioramenti, dalla gestione dinamica del layout al supporto per audio (anche sincronizzato al testo) e video, dalla gestione avanzata dei font al supporto ad HTML 5, e molto altro. Per citare un mio stesso tweet: ePub3 promette importanti passi avanti su tutta la linea. Gli editori sapranno sfruttarne le potenzialità?

Dopo un intervento piuttosto tecnico dedicato ai repertori e alle banche dati digitali, sul quale si sono espressi Simonetta Pillon di Informazioni Editoriali e Federico Meschini della De Montfort University, è stato il turno di salire sul palco per Michael Dahan, CEO di Bookeen, Antonio Bosio di Samsung e Alessandro Salsi di ASUS. E sarebbe potuta essere una preziosa occasione per gettare uno sguardo su progetti e prospettive di tre grandi attori del mercato, se, al di là di qualche piccola chicca, non si fossero limitati a spiattellare dati di vendita, quote di mercato conquistate e specifiche tecniche dei loro gioiellini. Tutta roba facilmente reperibile in rete. Mi pare che la platea non abbia gradito granché: peccato davvero per l’occasione sprecata.

La giornata si è infine chiusa con le domande rivolte da Antonio Dini, giornalista del Sole24Ore, a Bruno Mari di Giunti e Giovanni Biondi, capo dipartimento del MIUR, collegato in videoconferenza via Skype. Si è parlato di prospettive digitali per l’editoria scolastica: ma qui iniziavo a essere stanco, e i ricordi sono piuttosto annebbiati. Chiedo scusa per il coverage incompleto.

E insomma, in conclusione: da Ebook Lab Italia mi aspettavo tanto, ho avuto molto più di quanto sperassi. Ancora grazie a tutti: agli organizzatori per la serietà e la professionalità dimostrate, ai relatori per la competenza e la disponibilità, al pubblico per la partecipazione attiva ed entusiasta, al buffet per le ricche libagioni, agli amici ritrovati e alle persone conosciute, al pullmino dell’albergo per avermi portato clandestinamente in stazione, a Twitter per averci permesso di diffondere il Verbo. Arrivederci al prossimo anno.