domenica 31 gennaio 2010

La casa muda: sito ufficiale e trailer

Nel marasma di epigoni del capostipite Blair With Project mi sento di segnalare un interessante progetto proveniente dall'Uruguay. Il film in questione si intitola La casa muda e la sua particolarità consiste nell'essere girato in un'unico piano sequenza di 78 minuti.
Enjoy the trailer.

mercoledì 27 gennaio 2010

Jack Ketchum, La ragazza della porta accanto:
la rat-censione

Autore: Jack Ketchum
Titolo: La ragazza della porta accanto
Editore: Gargoyle Books
Pagine: 302
Prezzo: € 17,00
Isbn: 9788889541371

America, anni Cinquanta. Una cittadina di provincia come tante, un gruppo di ragazzini come tanti. In un caldo pomeriggio d'estate, uno di quei giorni in cui l'umidità ti si appiccica alla pelle come una sanguisuga, il giovane David ammazza il tempo cercando di catturare qualche gambero di fiume. Improvisamente si avvicina una ragazza, una ragazza nuova, mai vista nella piccola cittadina in cui tutti si conoscono. Si chiama Meg e, insieme alla sorella minore Susan, è stata affidata alla zia Ruth, vicina di casa di David. I genitori di Meg e Susan sono infatti morti in un incidente d’auto, che ha lasciato numerose fratture e ferite sul corpo della sorella minore. Ruth, divorziata con tre figli giovani, è una donna anticonformista, oggetto di ammirazione da parte di David e degli altri ragazzi del quartiere, ai quali permette di tanto in tanto di fumare una sigaretta o di bere qualche birra di nascosto. In apparenza, la sua è la casa in cui tutti vorrebbero vivere. Già, in apparenza. Perché qualcosa inizia lentamente a guastarsi nello sguardo della donna, uno sguardo che poco a poco diviene specchio di una crescente follia che si abbatterà inesorabile sulla giovane Meg, vittima sacrificale sull’altare di un gioco (il Gioco) al quale tutti i ragazzi sono invitati a partecipare…


La ragazza della porta accanto è un grande romanzo, che colpisce con inaudita potenza dritto alla bocca dello stomaco e mozza il fiato. E poi colpisce ancora. E ancora. Quando penso all'effetto che ha avuto su di me la lettura, la prima immagine che si forma nella mia mente è quella del limitare di un precipizio. Mi sporgo e il mio sguardo cerca di farsi strada tra le tenebre, dense e impenetrabili. So che lì sotto striscia qualcosa di terribilmente sbagliato, lo so perché il narratore me l'ha detto. Tuttavia non lo vedo. D'un tratto Ketchum mi spinge oltre il limite, scaraventandomi di sotto. Da quel momento precipito senza protezione nelle perversioni di una mente la cui integrità si erode alla stessa velocità con cui cado sempre più in basso, verso il fondo di una follia che sembra non avere mai fine. Fortunatamente, ce l'ha. Ma l'impatto col terreno è molto doloroso.

Affidandosi a una prosa asciutta ed estremamente efficace, Ketchum ci racconta la sua storia da un punto di vista privilegiato: seguiamo il corso degli eventi attraverso gli occhi di David, narratore in prima persona, ma il tutto è filtrato dal ricordo, poiché chi narra è il David ormai adulto. Ciò permette a Ketchum un vantaggio doppio: da un lato, l’identificazione del lettore con il David ragazzo, con tutti le conseguenze empatiche del caso, e, dall'altro, la possibilità per lo scrittore/narratore di ritagliarsi uno spazio di riflessione dal quale intervenire a distanza di sicurezza. Ed ecco che allora, già nel primo capitolo, David/Ketchum introduce il lettore a ciò che lo attende nelle pagine a venire: dolore.
Il dolore può agire dall'interno... Lo vedi e lui entra dentro di te. Poi sei tu. Sei l'organismo ospite di un lungo verme bianco che consuma e morde il tuo intestino, cresce e si gonfia fino a che una mattina tossisci e ti spunta dalla bocca la pallida testolina di qualcosa che striscia fuori, simile a una seconda lingua. No, questo dolore le mie mogli non lo conoscono. Io sì, però... L'ho conosciuto per molto tempo.
E poi, indietro nel tempo, a quella maledetta estate degli anni Cinquanta in cui tutto ebbe inizio.
Ricordo che eravamo tutti ragazzini quando accadde. (Ovviamente il lettore non sa ancora COSA accadde.) Soltanto ragazzini che avevano appena smesso di portare il berretto di pelo a forma di procione alla David Crockett. Giovani e acerbi, per Dio. E' decisamente difficile credere che quello che sono oggi è quello che ero un tempo, solo che adesso porto una maschera e mi nascondo. Ai ragazzi viene offerta una seconda chance, e mi piace pensare che io stia usando la mia.
[...] Ripeto a me stesso che stava accadendo qualcosa di strano, che una grande bolla americana stava per scoppiare; e che ciò stava accandendo ovunque, non solamente a casa di Ruth. Qualche volta questa convinzione mi aiuta a pensare che sia stato tutto meno grave. Intendo quello che abbiamo fatto.
Il punto focale, il centro di gravità attorno al quale ruota la riflessione di Ketchum è dunque esibito fin dalle pagine introduttive: il coflitto tra un indelebile senso di colpa, un'assoluta consapevolezza di ciò che è stato e delle responsabilità individuali da un lato, e, dall'altro, una dolorosa e sofferta autoindulgenza che trova parziale giustificazione nel secondo tema fondamentale affrontato nel romanzo: il venir meno delle barriere tra bene e male in assenza di figure in grado di tracciarne i limiti, con tutte le conseguenze del caso.
Ora ho quarantun anni. [...] E nulla nella mia vita è stato giusto da quell'estate del 1958, quando Ruth, Donny, Willie e tutti noialtri abbiamo conosciuto Meg Loughlin e sua sorella Susan.
Poi l'orrore ha inizio. Meg, vittima sacrificale del Gioco, e in misura ancora minore Susan, costretta ad assistere passivamente alle orribili torture alle quali la sorella viene costantemente sottoposta, sono forse i personaggi meno interessanti del romanzo, e svolgono più che altro la funzione di centro di gravità che attira a sé chi sta veramente a cuore a Ketchum: i ragazzini. Sono loro i veri protagonisti, molto più di Ruth, colei che detta le regole e sposta i confini del Gioco a suo piacimento (e per il suo godimento), e la cui colpa è quella di scivolare inesorabilmente verso la completa follia (ma è veramente una colpa?).

Da un lato, i figli di Ruth, primi veri partecipanti al Gioco, e gli altri ragazzi che a loro si aggiungeranno; dall'altro, David, spettatore passivo e lacerato, che potrebbe forse fermare la follia ma non lo fa, che assiste sgomento ma non chiude gli occhi, che osserva il corpo di Meg esposto agli avidi sguardi dei ragazzi traendone segretamente piacere, un godimento che soffoca la vergogna nello sguardo della ragazza. Il corpo sarà percosso, torturato, violato. Le regole del Gioco non esistono più.
Ruth voleva essere padrona assoluta della situazione. Lo spettacolo era suo e di nessun altro. Non c'era più nessun Gioco. Quella spogliata, nuda e appesa là sopra non era soltanto Meg; eravamo tutti noi.
E quando l'orrore giungerà al suo culmine, quando nemmeno le parole basteranno a descriverne le dinamiche, ecco che allora il David adulto si rifiuterà di dare forma al ricordo, ricacciando indietro quelle immagini che ancora consumano e mordono il suo intestino:
Non vi racconterò ciò che successe dopo. Mi rifiuto. Preferireste morire piuttosto che raccontare certe cose. Preferireste morire piuttosto che assistervi. E io vi ho assistito, e ho visto.
Di chi è la colpa? Fino a che punto si puntare il dito contro un branco di tredicenni a cui tutto è improvvisamente permesso? Chi è il vero responsabile dell'orrore? Ruth, la cui sanità mentale viene meno, senza che lei possa fare alcunché? I suoi figli, spinti (costretti?) dalla madre a calarsi sempre più in basso nelle tenebre? David, la cui passività sfocia nel più sordido voyeurismo, prima di (tentare di) espiare le sue colpe cercando di far evadere Meg dalla sua prigione sotterranea? O la legge, per la quale un minorenne non è mai pienamente consapevole delle sue azioni? E' davvero così? Lasciamo ancora una volta la parola a David:
Eravamo giovani. Non criminali o delinquenti. Così, secondo i termini di legge risultavamo innocenti per definizione, da non ritenere responsabili delle nostre azioni, come se tutti i ragazzi al di sotto dei diciotto anni fossero legalmente pazzi e incapaci di distinguere il bene dal male. I nostri nomi non vennero mai rilasciati alla stampa. Le nostre fedine penali rimasero pulite, e al fatto non venne data troppa pubblicità. La cosa al tempo mi suonò piuttosto strana, ma in fin dei conti, dato che non possedevamo gli stessi diritti degli adulti, immaginavo che fosse naturale anche esentarci dalle loro responsabilità. Era naturale, agli occhi di tutti fuorché quelli di Meg o Susan.

Link utili
La pagina del libro su aNobii
Il sito ufficiale di Jack Ketchum
Il sito della Gargoyle Books

martedì 26 gennaio 2010

La nuova muta

Sì, direi che ci siamo quasi: tre colonne, design sobrio ma "rattizzato", qualche ritocchino qua e là a un bellissimo template... ok, non sono di certo un grafico, ma l'effetto mi sembra più che dignitoso. Che ve ne pare?

lunedì 25 gennaio 2010

Buried: info e prima clip ufficiale


Paul è un mercenario americano al lavoro in Iraq. Dopo aver subito un attacco, perde e i sensi e quando si risveglia si ritrova sepolto vivo all'interno di una bara. Unici strumeti a sua disposizione per cercare di liberarsi da questa trappola mortale sono un accendino e un telefono cellulare. (Comingsoon.it)

Come scrive Stephen King nella postfazione al racconto "Autopsia 4" (da Tutto è fatidico, Sperling & Kupfer), "a un certo punto ogni scrittore (in questo caso regista, NdR) di horror deve affrontare l'argomento della tumulazione prematura, se non altro perché sembra una paura estremamente diffusa".
Rodrigo Cortés ha deciso di affrontarlo seppellendo lo spettatore per 94 minuti sotto il deserto iracheno accanto a Ryan Reynolds, unico attore a interpretare la sua iperclaustrofobica pellicola.
Chi ha avuto modo di vederlo al Sundance Film Festival si è nettamente sbilanciato a favore del bizzarro progetto, che la Tana terrà sicuramente sotto stretta osservazione.
Di seguito il primo video ufficiale (thanks to MTV).

venerdì 22 gennaio 2010

L'ultimo dei trentenni

La Tana del Ratto augura al ratto Geek un felice ingresso nei Trenta.
A domani per Avatar - Round 2.

mercoledì 20 gennaio 2010

Oscar Fail

Per il secondo anno consecutivo il candidato italiano all'Oscar per il miglior film straniero non passa le selezioni e viene rispedito al mittente. Non che generalmente il premio Oscar abbia pretese di valore artistico, beninteso, dopotutto casi come le 11 statuette vinte da Titanic nel 1998, il premio come miglior film assegnato a The Millionaire nell'ultima edizione o il fatto che un attore del calibro di Al Pacino ne abbia vinta solo una in tutta la sua carriera la dicono lunga. Ma ci sono stati anche esempi di annate più virtuose.
Il secondo fallimento italiano consecutivo invece dovrebbe far riflettere non tanto sulla bontà del nostro cinema, la cui qualità media è oggettivamente al di sotto di ogni scala di valutazione possibile e immaginabile, quanto sui criteri di scelta del film da presentare allo scintillante baraccone yankee. Caso eclatante quello dello scorso anno, quando a un film di grande qualità, ma di scarso appeal internazionale, come Il Divo di Paolo Sorrentno, fu preferito lo pseudo documentario romanzato Gomorra, opera di indubbio impatto sociale, ma di scarsissimo valore cinematografico.
Ques'anno il bocciato è Baaria di Tornatore (che non ho ancora avuto modo di vedere), scelto per rappresentare il nostro cinema a scapito di Fortapasc di Marco Risi, Vincere di Marco Bellocchio, Si può fare di Giulio Manfredonia e Il grande sogno di Michele Placido (e nemmeno questi ho visto).
Di seguito invece la lista dei finalisti: El secreto de Sus Ojos (Argentina), Sansone e Dalila (Australia), The World is Big and Salvation Lurks around the corner (Bulgaria), Un profeta (Francia), Il nastro bianco (Germania), Ajami (Israele), Kelin (Kazakhistan), Winter in Wartime (Olanda) e The Milk of Sorrow (Peru).
Ora, lungi da me il voler discriminare opere che per quanto ne so potrebbero essere dei capolavori assoluti della cinematografia mondiale, ma possibile che il nostro cinema non riesca a competere nemmeno con quello peruviano o kazako?

martedì 19 gennaio 2010

lunedì 18 gennaio 2010

Star Trek: la rat-censione

Titolo: Star Trek
Anno: 2009
Regia: JJ Abrams
Sceneggiatura: Alex Kurtzman, Roberto Orci (basato su Star Trek di Gene Roddenberry)
Cast: Chris Pine, Zachary Quinto, Leonard Nimoy, Eric Bana

Jim Kirk, figlio di un eroico capitano sacrificatosi in battaglia per salvare il suo equipaggio, è un ragazzo geniale e ribelle, che decide di iscriversi all’accademia spaziale per seguire le orme del padre.
Spok, mezzo vulcaniano e mezzo umano, sceglie la stessa strada ribellandosi al volere del grande consiglio degli anziani, colpevoli di rinfacciargli le sue origini “bastarde”.
Kirk e Spok, i due cardini fondamentali attorno ai quali si snoda il nuovo Star Trek secondo JJ Abrams, non hanno nulla in comune tranne il loro destino: unire loro malgrado le proprie forze per risolvere un conflitto che travalica le barriere del tempo e dello spazio, una guerra che costerà la vita a un intero pianeta e sarà all’origine della nascita dell’equipaggio spaziale più famoso della storia del cinema: quello dell’USS Enterprise.

Metto subito le mani avanti, nell’improbabile caso che qualche aficionado “storico” di Star Trek infili il muso nella Tana: non sono mai stato un fan della serie, non so praticamente nulla dei suoi protagonisti e dei loro sviluppi nel corso degli anni (sì, Spok e il capitano Kirk li conoscevo pure io), le puntate che ho visto quand’ero giovincello non mi erano piaciute per niente: insomma, tutto ciò che sta dietro alla saga (cronologie, cosmogonie & affini) mi è totalmente oscuro. Nel mio giudizio non ci sarà alcun legame con lo Star Trek pre-JJ Abrams, quindi prendetelo per quello che è: la recensione di un film di fantascienza, niente di più.

Qualche commento addietro scrivevo che la dicotomia prodotto (film, libro, ecc.) d’intrattenimento vs prodotto “serio”, all’origine di polemiche tanto banali nelle conclusioni quanto sterili nei contenuti, non ha per me alcun senso, portando come esempio tra i tanti Matrix, film che coniuga un comparto tecnico di primissimo piano con una sceneggiatura di tutto rispetto, basata su una trama avvincente e originale. Con tutti i distinguo del caso, lo Star Trek di JJ Abrams si inserisce in questa tradizione “virtuosa”, proponendo un prodotto di pregevolissima fattura tecnica e dalle solide fondamenta, divertente, spettacolare e misurato. A differenza di altri registi che spopolano nel cinema di genere, mister Lost sa benissimo che, come si suol dire, “il troppo stroppia”. Nella sua creatura tutto è dosato con molta attenzione: gli scontri a fuoco non durano 40 minuti ciascuno e non occupano il 90% del film, gli scambi di battute, che pur non brillano certo per originalità, non suscitano mai nello spettatore il classico sorrisino imbarazzato, i personaggi sono ovviamente funzionali al tipo di storia senza però sprofondare nella macchietta.
Non c’è spazio all’autocompiacimento tipico di chi si limita a spargere fumo negli occhi (o sugli occhialini) dello spettatore, ma ogni aspetto del film, dalla sceneggiatura agli effetti speciali, è sempre in funzione di un obiettivo ben preciso: intrattenere senza stancare, divertire senza per questo scadere nelle più ovvie e trite banalità. Obiettivo centrato in pieno, con un merito ulteriore: andando controcorrente rispetto a un’altra tendenza assai diffusa, secondo la quale un film d’azione deve per forza durare almeno 160 minuti (140 dei quali di inseguimenti/morte & distruzione), Abrams concentra la sua narrazione in 126 minuti densi e sapientemente bilanciati. Si chiama capacità di sintesi, ed è merce fin troppo rara. Beninteso, ci sono molti esempi di capolavori interminabili (Il signore degli anelli su tutti), ma sono molti di più i mediocrissimi e rumorosissimi polpettoni hollywoodiani il cui unico scopo è quello di seppellire lo spettatore sotto 3 ore di effetti speciali, mascherando in questo modo la pochezza alla base del prodotto. Per usare una facile metafora, qui siamo su un altro pianeta.

Più che dignitose anche le interpretazioni degli attori, tra le quali spicca quella di Zachary Quinto, senza dubbio due gradini sopra gli altri: il suo Spok, lacerato interiormente dalla doppia appartenenza alla razza vulcaniana, logica e pressoché priva di emozioni, e a quella umana, che fa proprio dell’emotività e della sensibilità la sua cifra fondamentale, è credibile e di grande impatto. Non ho idea di quali fossero le caratteristiche dello Spok “classico” interpretato da Leonard Nimoy, ma questa sua nuova incarnazione è sicuramente molto azzeccata.

A impreziosire ulteriormente il tutto, un comparto tecnico di grandissimo spessore (splendida tra le altre la nave da guerra romulana) che contribuisce alla riuscita di un film che si candida come uno dei migliori (se non il migliore in assoluto) d’azione dell’anno trascorso. Se una presunta rinascita del cinema di fantascienza avesse bisogno di punti fermi dai quali trarre ispirazione, lo Star Trek di JJ Abrams è una scelta pressoché obbligata.

sabato 16 gennaio 2010

Una pessima annata

Poco fa stavo tentando di spremere le mie stanche meningi per stilare una personale classifica dei migliori film dell'anno trascorso (per il sottoscritto fa fede la data di distribuzione nel paese d'origine, non in Italia).
L'operazione ha confermato in pieno una sensazione che avevo da un po' di tempo: il 2009 è stata un'annata cinematograficamente pessima, soprattutto se rapportata al ben più generoso 2008.
Andando un pochino a spanne, mi vengono in mente tre titoli su tutti: Inglourious Basterds, Up e The House of the Devil. Sicuramente me ne sto perdendo qualcuno per strada, ma non credo molti.
Il buon 2008 ci propinò, tra gli altri: Gran Torino, Frost/Nixon, Martyrs, Let the Right One In, The Dark Knight, Milk, The Wrestler, The Curious Case of Benjamin Button, ecc.
Vogliamo mettere?

venerdì 15 gennaio 2010

Paradise Circus: il (vietatissimo) video


Si chiama Paradise Circus il nuovo singolo dei Massive Attack, tratto dall'ormai imminente album Heligoland, in uscita l'8 febbraio prossimo.
Il video, rigorosamente vietato ai minori, è a dir poco bizzarro: trattasi di un'intervista a Georgina Spelvin, famosa pornodiva degli anni '70, intervallata a un montaggio di spezzoni hardcore tratti da The Devil in Miss Jones, film che la vide protagonista nel 1973.
E' possibile vedere il video in questione direttamente sul sito ufficiale della band.
Per più che ovvi motivi l'embed non è possibile. Enjoy.

Il bandito con un braccio solo


Dopo 5 anni di progetti solisti paralleli (alcuni dei quali, come The Door di Mathias Eick, di notevole spessore), il 25 gennaio uscirà finalmente One-Armed Bandit, ultima fatica dell'eclettico collettivo norvegese Jaga Jazzist.
A quanto pare il successore di What We Must sta riscuotendo un notevole successo di critica: è possibile leggere qualche recensione direttamente sul sito ufficiale della band, mentre a questo link è disponibile il download di Toccata, uno dei brani che saranno presenti nell'album.
Per quanto riguarda le prossime date live, dopo il tour giapponese da poco concluso (purtroppo non coincidente con quello del sottoscritto, mannaggia) i pazzoidi torneranno in Europa, ma dell'Italia ancora nessuna traccia. Sperem.

martedì 12 gennaio 2010

In Giappone, parte seconda

Esiste l'acqua della Coca-Cola.
Lo sport nazionale è il baseball.
Fumare per strada è vietato. Esistono tuttavia alcune piazzole franche, in cui i fumatori si accalcano per tirare qualche boccata. L'effetto è piuttosto bizzarro.
Sui mezzi di trasporto è vietato tenere la suoneria dei cellulari accesa. In treno, inoltre, chi volesse parlare al telefono è invitato a farlo nei passaggi di intercomunicazione tra un vagone e l'altro. Il risultato: niente piripi parapapa tetetettete ogni 3 secondi, roba da orgasmo silenzioso.
Molte donne camminano con le punte dei piedi rivolte all'interno, con conseguenze disastrose su gambe, caviglie e articolazioni. Il difetto è presente già nelle bambine, viene da chiedersi per quale motivo non venga corretto in tempo utile.
Al ristorante, nella stragrande maggioranza dei casi acqua e tè sono gratis.
Il pane non esiste (o meglio, esiste, ma i ristoranti non ne sono provvisti).
Ogni cosa è illuminata.
La differenza tra manga e romanzo è molto sottile. Ne sono prova i frequentissimi adattamenti dall'uno all'altro mezzo e l'"aspetto fisico" assai simile.
Moltissime persone girano con la mascherina di carta: chissà se lo fanno per paura dell'influenza A, per difendersi dallo smog o per un generale timore di contrarre una qualunque malattia.
La gente si abbiocca di continuo in treno e in metropolitana: vi giuro che ho visto persone dormire (russando) in piedi, aggrappate alle maniglie di sostegno che penzolano dal soffitto.
Il divertimento per antonomasia è il karaoke: esistono palazzi interi a esso dedicati, nei quali è possibile noleggiare una "cabina karaoke" nella quale rinchiudersi con gli amici e cantare a squarciagola, senza dar fastidio a nessuno.

Avatar: la rat-censione

Titolo: Avatar
Anno: 2009
Genere: fantascienza/avventura
Regia e sceneggiatura: James Cameron
Cast: Sam Worthington, Zoe Saldana, Sigourney Weaver, Stephen Lang

Sono andato a questa proiezione nipponica del chiacchieratissimo Avatar con tutte le migliori intenzioni, lo giuro: cinema avveniristico a Shinjuku, sala gremita, e, soprattutto, quale occasione migliore per sperimentare per la prima volta il 3D! (Ebbene sì, fino a ieri sera non avevo mai testato la "nuova" tecnologia che, nei piani delle major, dovrebbe salvare il cinema da morte certa). Nonostante le deliranti recensioni apparse finora in rete, mi sono veramente sforzato di fare tabula rasa di tutti i preconcetti derivanti dalla mastodontica campagna di marketing preventivo, quasi mai sintomo di qualità, e di giudicare obiettivamente l'ultima, costosissima fatica di James Cameron. Il film che sta battendo ogni record di incassi. Un film che, superata la prima ora di meraviglia e stupore per la straordinaria ricchezza visiva e sonora che stordisce lo spettatore, conferma in pieno tutti i miei timori: tolti occhialetti e assuefattisi ai mirabolanti effetti speciali, ciò che rimane è lo zero assoluto. Colpa di una banalissima sceneggiatura infarcita di luoghi comuni, filosofia new age che più terra terra non si può e dialoghi ai limiti del ridicolo.
Ma procediamo con ordine.

Trama: in un futuro prossimo, gli esseri umani, i cattivi cioè, trovano un giacimento di un preziosissimo minerale sul pianeta Pandora, paradiso incontaminato nelle profondità dello spazio. Peccato che il pianeta sia abitato dai Na'vi, tribù di "selvaggi" dediti al culto della natura e a una religione di stampo panteistico che li lega a doppio filo con una sorta di energia che fluisce in tutte le forme viventi. Loro, ovviamente, sono i buoni. Indovinate un po' dove si trova il tanto agognato giacimento? Bravi, proprio sotto le chiappe dei Na'vi, e più precisamente alla base di un gigantesco albero sacro che costituisce anche la loro casa.
Come sbarazzarsi dei fastidiosi selvaggi? Infiltrandosi tra loro: purtroppo l'atmosfera di Pandora è tossica, e qui entrano in gioco gli Avatar, alter-ego alieni degli esseri umani creati in laboratorio grazie alla fusione del dna delle due razze. Jake Sully, ex marine ora paralitico, è colui che dovrà eseguire la missione, interfacciandosi al suo Avatar e facendo in modo che i Na'vi lo accettino tra loro. Cosa manca? Ah sì, certo: secondo voi, cosa scatterà tra Jake e la bella Na'vi che lo accoglierà nella tribù? Bravi: l'amore! E poi? Ma sì dai, che ci vuole: dopo mezzora di film tutto è già talmente scritto, anzi scolpito nella pietra che si potrebbe abbandonare la sala (i miei due vicini di posto l'hanno fatto) e scrivere per filo e per segno tutta la sceneggiatura del film. Anche perché di colpi di scena qui non c'è traccia.

Effetti visivi: niente da dire, Pandora era più reale della sala in cui ero seduto. Un tripudio di vita, colori e suoni che non si era mai visto, il trionfo della tecnologia più avanzata applicata al cinema (e chi mi conosce sa benissimo quanto tutto ciò mi affascini).

Cast: Sigourney Weaver, l'unica attrice di tutta la troupe in grado di recitare, interpreta una biologa tristemente monodimensionale, di cui non si sa pressoché nulla. Gli altri personaggi sono talmente piatti, mal costruiti e imbottiti di cliché da rasentare il ridicolo. Trionfa a mani basse lo straordinario colonnello dei marine, ottenuto frullando indiscriminatamente tutti gli stereotipi possibili e immaginabili del ruolo: grossissimo, fortissimo e cattivissimo, il suo unico scopo è quello di sterminare i Na'vi deliziando lo spettatore con agghiaccianti bassezze linguistiche del calibro di "Come on, let's bring the pain" & C. Roba che neanche Chuck Norris. A impreziosire il già ricchissimo pout-pourri di espressioni facciali del cast, l'insopportabile Ana Lucia Cortez di Lost. Ma li han scelti apposta o han pescato a random tra gli scarti di Hollywood?

Sonoro: effetti di altissimo livello, in quella foresta tu ci sei. E quando, strisciando lentamente nel sottobosco cercando di non produrre il minimo rumore, sentirai un sinistro fruscio alle tue spalle, stai sicuro che ti volterai di scatto. La colonna sonora invece è un palese plagio di quella del Re Leone Disney, non sto scherzando, è uguale.

Insomma, volendo tirar le somme, diciamo che il film funziona finché non parla di nulla: quando tenta di imbastire due discorsi in croce, crolla miseramente sotto l'enorme peso degli effetti visivi e sonori che, privi di un qualsiasi supporto in grado di sostenerli, sono l'unica cosa che rimane alla fine di una proiezione oltretutto interminabile. Ma io mi chiedo: se non hai proprio nulla da dire e da raccontare, abbi almeno la decenza di limitare a massimo 2 ore la durata del film. Almeno non mi tocca uscire con le piaghe sul naso causate da quei malefici e pesantissimi occhiali.
400 milioni di dollari o giù di lì di investimento: riservarne un paio per pagare uno sceneggiatore decente faceva tanto schifo? Fail.

Una precisazione: il giudizio è volutamente esasperato, ma più che giustificato. Ci sono alcune cose che mi fanno incazzare di brutto (come dice il Kaki: perché un film iperpompato di effetti speciali deve per forza avere una sceneggiatura di merda? Dove sta scritto?), sulle quali non riesco proprio a passare sopra. Allucinante poi che in giro si parli di capolavoro, di film che rilancia il genere semidefunto della fantascienza. Quando associo i termini "fantascienza" e "capolavoro", il primo titolo che mi viene in mente è sempre e solo uno: Blade Runner. Che oltretutto non mi sembra avesse dei fondali di cartone ed effetti speciali fatti col pongo...

Aggiornamento. Cinefile, i cui giudizi rispecchiano spesso e volentieri i miei, ha da poco pubblicato la sua recensione, senza dubbio più posata e meno astiosa di quella del sottoscritto, che ne condivide in ogni caso il succo: "Per essere un film pensato così a lungo – oltre un decennio – Avatar è sorprendentemente poco sorprendente, sotto ogni aspetto. Basato su una sceneggiatura banale, totalmente priva di guizzi e animata da personaggi piatti, il film affida alla sola parte visiva tutto il suo fascino."

domenica 10 gennaio 2010

How to remember an atomic bomb & Back to the future

E dopo aver girovagato in lungo e, soprattutto, in largo per questo incredibile paese, rieccoci infine di nuovo al punto di partenza. Tokyo, la ciclopica capitale del futuro, ci accoglie nuovamente come solo lei sa fare, avvolgendoci in un caleidoscopico turbinio di luci, suoni e colori.
Abbiamo trascorso gli ultimi tre giorni facendo base a Hiroshima, città dalla quale mi aspettavo a dire il vero pochino, e che invece ha saputo rivelare qualità insospettabili: il capoluogo dell'omonimo distretto forse non ha quel fascino tipicamente nipponico tipico di altre città, ma è verde, vivace e indubbiamente ospitale. Ovviamente il primo giorno è stato dedicato alla visita dei luoghi simbolo della città, interamente ricostruita dopo la tragedia atomica che la rase al suolo durante la seconda guerra mondiale. Forse ciò che più mi ha impressionato è l'idea che tutte le persone anziane che incontravo lungo la mia strada siano state testimoni di quell'evento, il pensiero che quegli occhi abbiamo assistito in presa diretta a ciò che noi possiamo solo intuire e dedurre dalle raccapriccianti immagini raccolte nel museo della pace.
Come già detto, Hiroshima è stata anche un ottimo punto di partenza per due escursioni, la prima a Miyajima, isola famosa per il suo torii galleggiante (e per le succulente ostriche), la seconda a Kobe: purtroppo, causa prezzi esorbitanti, un assaggio del famigerato manzo di Kobe era fuori discussione, ma mi sono consolato con una deliziosa bistecca di un altro tipo di bovino locale, forse meno pregiato del più blasonato parente, ma sicuramente delizioso.
Domani è finalmente il turno del Ghibli Museum (yess!), dopodomani, ultimo giorno Giapponese, Tokyo National Museum e shopping ad Akihabara, the Electric Town.
Yo!

P.S. Già che son qua, domani sera approfitterò della situazione per vedere Avatar (parlato in inglese, sottotitoli in jappo!). Giuro, senza pregiudizi&preconcetti.

mercoledì 6 gennaio 2010

JappoRatti, parte terza

E anche la seconda settimana se n'è tristemente andata. Dopo essere stati per 5 giorni bel futuro (Tokyo), eccoci dunque catapultati nel passato, alla scoperta del lato più tradizionale e affascinante del Giappone. Nikko is Japan, recita una campagna promozionale della piccola cittadina situata a nord-ovest della capitale: sicuramente esagerando, ma i due giorni trascorsi vagando tra i meravigliosi templi buddhisti che sorgono sulle colline sono stati decisamente ben spesi. Degna di nota anche la minuscola distilleria di birra locale, che offre un po' di ristoro allo stanco viaggiatore dopo una giornata di duro cammino.
Da Nikko a Takayama il salto è stato notevole, quantomeno per le condizioni meteo che ci hanno accolto: tormenta di neve ininterrotta e gelo siberiano, ma quando ti attendono due notti in una lussuosa ryokan tradizionale con onsen privato, beh, c'è bisogno di aggiungere altro? Qualcosa sì: la minuscola cittadina, da scoprire passo dopo passo percorrendone le anguste vie che odorano di legno e sakè, è una vera e propria gemma incastonata tra le Alpi giapponesi e dovrebbe essere tappa obbligata per chiunque stia programmando un viaggio nel paese del Sol Levante.
Gli ultimi 5 giorni li abbiamo interamente dedicati a Kyoto e ai principali punti di interese situati nelle sue immediate vicinanze (Nara, Himeji). E qui ci sarebbe bisogno di un tomo intero della Treccani: Kyoto è una città dal fascino impareggiabile, capace di conquistare tanto per il suo sterminato patrimonio culturale quanto per le ardite opere di architettura moderna (trascorrere una serata nell'incredibile stazione ferroviaria, inaugurata nel 1997, equivale a essere teletrasportati direttamente sull'Enterprise).
Lasciarsi abbagliare dalla luccicante bellezza del Kunkakuji-ji (il famigerato Padiglione d'oro), inerpicarsi tra i templi di Higashiyama, avvistare una Geisha o una Maiko a Shirakawa Minami-dori, una delle strade più affascinanti di tutto il Giappone, sono esperienze uniche e indimenticabili, quasi quanto ingozzarsi di sushi e tempura per due settimane di fila!
E tuttavia il viaggio deve proseguire, prossima tappa Hiroshima mon amour, dove trascorreremo un paio di giorni prima di chiudere il cerchio tornando a Tokyo (museo Ghibli, sto arrivando!). Piango al pensiero di tutto il tempo di cui avremmo bisogno per vedere tutto ciò che ancora ci manca, ma per ora può bastare così, tanto già so che prima o poi qui ci tornerò.
Sayonara rattacci, alla prossima!

lunedì 4 gennaio 2010

In Giappone

I semafori pedonali parlano.
Le poste sono aperte anche di domenica.
E' possibile salire su un numero n di treni in una giornata, con massimo 10 minuti di tempo per passare da uno all'altro, e non perdere nemmeno una coincidenza.
Quando il controllore entra/esce da un vagone, si inchina e saluta sia in ingresso sia in uscita. Sempre.
Se non ti piace la soia sei fottuto.
Le tavolette del water sono spesso e volentieri riscaldate. C'è da chiedersi perché non lo siano per legge, in tutto il resto del pianeta.
I bagni pubblici sono spesso e volentieri molto più puliti di quello di casa tua.
Non esistono i bar (per lo meno, non come li intendiamo noi).
I minimarket sono a ogni angolo, sono aperti 24 ore su 24 e vendono di tutto, dai bento ai biglietti per i musei ai manga.
Esistono luoghi (manga kissa) in cui si entra, si ordina una consumazione e si ha diritto a occupare una stanza/cabina privata in cui leggere manga a profusione. In codeste cabine è possibile perfino dormire, in caso si perda l'ultimo treno per tornare a casa.
I distributori automatici sono ovunque.
Nessuno salta la fila.
Tutti cercano di aiutarti, nessuno cerca di fotterti.
Nessuno ti importuna.
I dolci sono generalmente immangiabili.
Ogni bambino ha un Nintendo DS/Sony PSP/entrambi.
Super Mario e Hello Kitty sono ovunque.
Tutte le ragazze indossano gonna/gonnellina/minogonna. Giuro che in 10 giorni ne avrò viste tre in tutto con i jeans.
Tutto ciò che vi raccontano i manga è vero (no, Mazinga e Daitarn 3 non esistono. Anche se non ci giurerei).
Ogni volta che entrate in un esercizio commerciale qualunque, tutte le persone che ci lavorano interrompono per un secondo le loro attività per accogliervi con un caloroso "Irasshaimaseeeeeeeee" (benvenuto).
Il sushi si scioglie in bocca.
Tutti mangiano, a qualsiasi ora del giorno. Alcune tavole calde sono aperte 24 ore su 24.
Si guida a sinistra, si cammina a sinistra, si sale le scale a sinistra.
Le sale giochi sono universi paralleli.
Final Fantasy conta più dell'imperatore.

(to be continued)