martedì 17 novembre 2009

The House of the Devil (Ti West, 2009):
la Rat-censione

Titolo: The House of the Devil
Regia e sceneggiatura: Ti West
Cast: Jocelin Donahue, Tom Noonan, Mary Woronov
Anno: 2009
Genere: Horror
Distrubuzione italiana: non pervenuta (e mai perverrà)

Mi appresto a scrivere questa breve recensione tenendo ben presente due cose: primo, il giudizio che esprimerò sul film, per quanto ovviamente personale, è giocoforza influenzato dall'ottima recensione pubblicata da Elvezio Sciallis su Malpertuis (fatevi un favore, andate e leggetene tutti); e secondo, direttamente collegato al primo, non ho di certo l'ambizione di eguagliarne la complessità: anche volendo non disporrei degli strumenti (leggi preparazione) necessari per farlo.
Mi limiterò pertanto a buttare giù qualche riflessione scaturita dalla visione dell'opera ultima di Ti West (giovane regista che, non mi vergogno a dirlo, fino a pochi giorni fa non avevo mai nemmeno sentito nominare).
Poche righe per riassumere una trama volutamente scarna ed essenziale: Samantha, giovane e squattrinata studentessa, accetta un lavoro come babysitter per pagare l'affitto della sua nuova casa. Ma la persona da accudire non è esattamente quella che avrebbe dovuto essere, e nemmeno i suoi datori di lavoro: si ritroverà completamente isolata in una villa accanto a un cimitero, in balia di una famiglia di adoratori di Satana.
Sì, tutto qua. Ed è proprio su questo "tutto qua" che West costruisce, inquadratura su inquadratura, uno degli horror più riusciti degli ultimi anni. Cosa che, in un momento decisamente positivo per noi amanti dell'orrore digitale (qualcuno ha detto Martyrs?), eleva il suo film a pietra di paragone per l'horror a venire. O per lo meno per un certo tipo di horror, che forse si potrebbe definire "consapevole".
The House of the Devil è un film interamente giocato sulla regia e sulle suggestioni che un certo tipo di sguardo è in grado di trasmettere allo spettatore: definire maniacale l'attenzione rivolta da West ai dettagli è non rendere giustizia a un’opera in cui ogni minimo ingranaggio, anche quello che a prima vista potrebbe sembrare il più insignificante, si incastra alla perfezione col seguente e così via, in un meccanismo oliato alla perfezione. Everything in its right place.
Per oltre venti minuti Samantha (o qualche dettaglio della sua persona) è pressoché costantemente inquadrata: la macchina da presa la segue mentre cammina per strada, mentre si sdraia sui gradini del college, mentre raccoglie il walkman cadutole in terra, mentre piange in bagno. La “fase preparatoria” del film, quasi esclusivamente concentrata sulla figura della giovane protagonista, è essenziale per permettere allo spettatore di sviluppare empatia nei confronti della ragazza, per cogliere ogni suo piccolo gesto, ogni sfumatura del suo sorriso. Anche in questo caso, gesti e situazioni minuziosamente studiati da ogni angolazione.
Quando Samantha, appena al minuto 4:53, entra nel tunnel, viene inghiottita dall’ombra, e, improvvisamente inquadrata in primo piano, si volta a sinistra (ma in realtà è alle sue spalle che vorrebbe guardare) come se in quell’ombra qualcuno o qualcosa fosse in agguato, quando la macchina da presa ne congela movimento ed espressione, allora sai già. Quando l’inquadratura, accompagnata da un suono sempre più stridulo (già sentito in precedenza), stringe sulla matita che annota l’indirizzo della villa in cui Samantha dovrà recarsi, sai già. E infine quando l’automobile, dopo una più che eloquente inquadratura che la osserva da dietro mentre avanza verso un buio apparentemente impenetrabile, passa accanto a un cimitero, a quel punto sai perfettamente. Su tutti questi "sai già" si innesta un meccanismo di tensione e scioglimento che, dopo una prima mezzora in cui il regista si diverte a disseminare qua e là indizi che portano tutti nell’unica direzione possibile, si completa nell’istante stesso in cui Samantha varca la soglia della villa. Villa che, con i suoi rumori appena accennati, le sue ombre, le sue infinite porte che si aprono verso stanze immerse nell'oscurità, i passi che la attraversano, si erge da questo momento in poi a coprotagonista (e, a tratti, protagonista assoluta) del film. Quel perverso meccanismo di infinito avvicinamento all’inevitabile a cui prima accennavo raggiunge qui il suo apice assoluto, sfociando in una tensione a tratti quasi insopportabile. Sai che qualcosa sta per accadere, sai che quel qualcosa deve necessariamente accadere, ma non accade, non ancora. Ti West gioca con lo spettatore, lo porta fino al limite, poi allenta la presa, ma solo un pochino, che non si rilassi troppo. Di certo non gli lascia il tempo per andare in cucina a prendere una birra dal frigo.
Ogni scricchiolio, ogni ombra sfuggente, ogni cambio di inquadratura non fa altro che avvicinare questo sottilissimo equilibrio al punto di rottura. E, quando ciò accade, si rivela perfino secondario rispetto a ciò che è stato fino a quel momento. Questo non significa sminuire lo scioglimento della vicenda e il suo intrinseco valore, anzi: tuttavia l’importanza del prima finisce per risultare soverchiante rispetto al pur godibilissimo dopo.
Il film offre ancora moltissimi spunti di riflessione, dalla maniacale ricostruzione degli anni Ottanta (e non solo nelle ambientazioni: il senso dell’operazione è fare in modo che il film sembri realmente girato in quel periodo) alla scelta della colonna sonora, tutti argomenti di discussione per i quali rimando alla già citata recensione.
La differenza che passa tra uno degli infiniti remake tanto in voga negli ultimi anni e questo film è la stessa che passa tra lo sbattere in faccia e lo svelare, tra l’urlare e il suggerire. Dopo i quintali di immondizia che, oltre alle strade di molte città del Sud, si riversa anche nelle sale cinematografiche nostrane, è un vero piacere imbattersi in prodotti di questo spessore. Prodotti che tuttavia non fanno altro che rimarcare drasticamente la miopia delle politiche cinematografiche in voga dalle nostra parti, grazie alle quali avremo sempre meno Case del diavolo e sempre più redivivi Enigmisti del cazzo a imbrattare di interiora di maiale piccoli e grandi schermi d’Italia.

2 commenti:

Elvezio Sciallis ha detto...

Grazie per la recensione, ottima lettura e, lasciamelo dire, fa piacere sapere che qualcun altro la pensa come me.

Geek ha detto...

si sono d'accordo anche io su tutto, come scritto in privato via mail, quello che forse mi ha colpito di più è l'attenzione nel riproporre l'atmosfera degli horror anni 80 attraverso l'uso dei colori e del montaggio, oltre alla azzeccatissima colonna sonora. Personalmente vorrei che West in futuro possa esprimere il suo talento guardando ai giorni nostri, vorrei che si spingesse fino alle straordinarie vette del fantastico horror europeo di questi anni, che riuscisse a sviluppare uno stile moderno. Le capacità non gli mancano e neanche il supporto tecnico dei collaboratori e della produzione.