venerdì 27 novembre 2009
martedì 17 novembre 2009
The House of the Devil (Ti West, 2009):
la Rat-censione
Titolo: The House of the Devil
Regia e sceneggiatura: Ti West
Cast: Jocelin Donahue, Tom Noonan, Mary Woronov
Anno: 2009
Genere: Horror
Distrubuzione italiana: non pervenuta (e mai perverrà)
Mi appresto a scrivere questa breve recensione tenendo ben presente due cose: primo, il giudizio che esprimerò sul film, per quanto ovviamente personale, è giocoforza influenzato dall'ottima recensione pubblicata da Elvezio Sciallis su Malpertuis (fatevi un favore, andate e leggetene tutti); e secondo, direttamente collegato al primo, non ho di certo l'ambizione di eguagliarne la complessità: anche volendo non disporrei degli strumenti (leggi preparazione) necessari per farlo.
Mi limiterò pertanto a buttare giù qualche riflessione scaturita dalla visione dell'opera ultima di Ti West (giovane regista che, non mi vergogno a dirlo, fino a pochi giorni fa non avevo mai nemmeno sentito nominare).
Poche righe per riassumere una trama volutamente scarna ed essenziale: Samantha, giovane e squattrinata studentessa, accetta un lavoro come babysitter per pagare l'affitto della sua nuova casa. Ma la persona da accudire non è esattamente quella che avrebbe dovuto essere, e nemmeno i suoi datori di lavoro: si ritroverà completamente isolata in una villa accanto a un cimitero, in balia di una famiglia di adoratori di Satana.
Sì, tutto qua. Ed è proprio su questo "tutto qua" che West costruisce, inquadratura su inquadratura, uno degli horror più riusciti degli ultimi anni. Cosa che, in un momento decisamente positivo per noi amanti dell'orrore digitale (qualcuno ha detto Martyrs?), eleva il suo film a pietra di paragone per l'horror a venire. O per lo meno per un certo tipo di horror, che forse si potrebbe definire "consapevole".
The House of the Devil è un film interamente giocato sulla regia e sulle suggestioni che un certo tipo di sguardo è in grado di trasmettere allo spettatore: definire maniacale l'attenzione rivolta da West ai dettagli è non rendere giustizia a un’opera in cui ogni minimo ingranaggio, anche quello che a prima vista potrebbe sembrare il più insignificante, si incastra alla perfezione col seguente e così via, in un meccanismo oliato alla perfezione. Everything in its right place.
Per oltre venti minuti Samantha (o qualche dettaglio della sua persona) è pressoché costantemente inquadrata: la macchina da presa la segue mentre cammina per strada, mentre si sdraia sui gradini del college, mentre raccoglie il walkman cadutole in terra, mentre piange in bagno. La “fase preparatoria” del film, quasi esclusivamente concentrata sulla figura della giovane protagonista, è essenziale per permettere allo spettatore di sviluppare empatia nei confronti della ragazza, per cogliere ogni suo piccolo gesto, ogni sfumatura del suo sorriso. Anche in questo caso, gesti e situazioni minuziosamente studiati da ogni angolazione.
Quando Samantha, appena al minuto 4:53, entra nel tunnel, viene inghiottita dall’ombra, e, improvvisamente inquadrata in primo piano, si volta a sinistra (ma in realtà è alle sue spalle che vorrebbe guardare) come se in quell’ombra qualcuno o qualcosa fosse in agguato, quando la macchina da presa ne congela movimento ed espressione, allora sai già. Quando l’inquadratura, accompagnata da un suono sempre più stridulo (già sentito in precedenza), stringe sulla matita che annota l’indirizzo della villa in cui Samantha dovrà recarsi, sai già. E infine quando l’automobile, dopo una più che eloquente inquadratura che la osserva da dietro mentre avanza verso un buio apparentemente impenetrabile, passa accanto a un cimitero, a quel punto sai perfettamente. Su tutti questi "sai già" si innesta un meccanismo di tensione e scioglimento che, dopo una prima mezzora in cui il regista si diverte a disseminare qua e là indizi che portano tutti nell’unica direzione possibile, si completa nell’istante stesso in cui Samantha varca la soglia della villa. Villa che, con i suoi rumori appena accennati, le sue ombre, le sue infinite porte che si aprono verso stanze immerse nell'oscurità, i passi che la attraversano, si erge da questo momento in poi a coprotagonista (e, a tratti, protagonista assoluta) del film. Quel perverso meccanismo di infinito avvicinamento all’inevitabile a cui prima accennavo raggiunge qui il suo apice assoluto, sfociando in una tensione a tratti quasi insopportabile. Sai che qualcosa sta per accadere, sai che quel qualcosa deve necessariamente accadere, ma non accade, non ancora. Ti West gioca con lo spettatore, lo porta fino al limite, poi allenta la presa, ma solo un pochino, che non si rilassi troppo. Di certo non gli lascia il tempo per andare in cucina a prendere una birra dal frigo.
Ogni scricchiolio, ogni ombra sfuggente, ogni cambio di inquadratura non fa altro che avvicinare questo sottilissimo equilibrio al punto di rottura. E, quando ciò accade, si rivela perfino secondario rispetto a ciò che è stato fino a quel momento. Questo non significa sminuire lo scioglimento della vicenda e il suo intrinseco valore, anzi: tuttavia l’importanza del prima finisce per risultare soverchiante rispetto al pur godibilissimo dopo.
Il film offre ancora moltissimi spunti di riflessione, dalla maniacale ricostruzione degli anni Ottanta (e non solo nelle ambientazioni: il senso dell’operazione è fare in modo che il film sembri realmente girato in quel periodo) alla scelta della colonna sonora, tutti argomenti di discussione per i quali rimando alla già citata recensione.
La differenza che passa tra uno degli infiniti remake tanto in voga negli ultimi anni e questo film è la stessa che passa tra lo sbattere in faccia e lo svelare, tra l’urlare e il suggerire. Dopo i quintali di immondizia che, oltre alle strade di molte città del Sud, si riversa anche nelle sale cinematografiche nostrane, è un vero piacere imbattersi in prodotti di questo spessore. Prodotti che tuttavia non fanno altro che rimarcare drasticamente la miopia delle politiche cinematografiche in voga dalle nostra parti, grazie alle quali avremo sempre meno Case del diavolo e sempre più redivivi Enigmisti del cazzo a imbrattare di interiora di maiale piccoli e grandi schermi d’Italia.
Regia e sceneggiatura: Ti West
Cast: Jocelin Donahue, Tom Noonan, Mary Woronov
Anno: 2009
Genere: Horror
Distrubuzione italiana: non pervenuta (e mai perverrà)
Mi appresto a scrivere questa breve recensione tenendo ben presente due cose: primo, il giudizio che esprimerò sul film, per quanto ovviamente personale, è giocoforza influenzato dall'ottima recensione pubblicata da Elvezio Sciallis su Malpertuis (fatevi un favore, andate e leggetene tutti); e secondo, direttamente collegato al primo, non ho di certo l'ambizione di eguagliarne la complessità: anche volendo non disporrei degli strumenti (leggi preparazione) necessari per farlo.
Mi limiterò pertanto a buttare giù qualche riflessione scaturita dalla visione dell'opera ultima di Ti West (giovane regista che, non mi vergogno a dirlo, fino a pochi giorni fa non avevo mai nemmeno sentito nominare).
Poche righe per riassumere una trama volutamente scarna ed essenziale: Samantha, giovane e squattrinata studentessa, accetta un lavoro come babysitter per pagare l'affitto della sua nuova casa. Ma la persona da accudire non è esattamente quella che avrebbe dovuto essere, e nemmeno i suoi datori di lavoro: si ritroverà completamente isolata in una villa accanto a un cimitero, in balia di una famiglia di adoratori di Satana.
Sì, tutto qua. Ed è proprio su questo "tutto qua" che West costruisce, inquadratura su inquadratura, uno degli horror più riusciti degli ultimi anni. Cosa che, in un momento decisamente positivo per noi amanti dell'orrore digitale (qualcuno ha detto Martyrs?), eleva il suo film a pietra di paragone per l'horror a venire. O per lo meno per un certo tipo di horror, che forse si potrebbe definire "consapevole".
The House of the Devil è un film interamente giocato sulla regia e sulle suggestioni che un certo tipo di sguardo è in grado di trasmettere allo spettatore: definire maniacale l'attenzione rivolta da West ai dettagli è non rendere giustizia a un’opera in cui ogni minimo ingranaggio, anche quello che a prima vista potrebbe sembrare il più insignificante, si incastra alla perfezione col seguente e così via, in un meccanismo oliato alla perfezione. Everything in its right place.
Per oltre venti minuti Samantha (o qualche dettaglio della sua persona) è pressoché costantemente inquadrata: la macchina da presa la segue mentre cammina per strada, mentre si sdraia sui gradini del college, mentre raccoglie il walkman cadutole in terra, mentre piange in bagno. La “fase preparatoria” del film, quasi esclusivamente concentrata sulla figura della giovane protagonista, è essenziale per permettere allo spettatore di sviluppare empatia nei confronti della ragazza, per cogliere ogni suo piccolo gesto, ogni sfumatura del suo sorriso. Anche in questo caso, gesti e situazioni minuziosamente studiati da ogni angolazione.
Quando Samantha, appena al minuto 4:53, entra nel tunnel, viene inghiottita dall’ombra, e, improvvisamente inquadrata in primo piano, si volta a sinistra (ma in realtà è alle sue spalle che vorrebbe guardare) come se in quell’ombra qualcuno o qualcosa fosse in agguato, quando la macchina da presa ne congela movimento ed espressione, allora sai già. Quando l’inquadratura, accompagnata da un suono sempre più stridulo (già sentito in precedenza), stringe sulla matita che annota l’indirizzo della villa in cui Samantha dovrà recarsi, sai già. E infine quando l’automobile, dopo una più che eloquente inquadratura che la osserva da dietro mentre avanza verso un buio apparentemente impenetrabile, passa accanto a un cimitero, a quel punto sai perfettamente. Su tutti questi "sai già" si innesta un meccanismo di tensione e scioglimento che, dopo una prima mezzora in cui il regista si diverte a disseminare qua e là indizi che portano tutti nell’unica direzione possibile, si completa nell’istante stesso in cui Samantha varca la soglia della villa. Villa che, con i suoi rumori appena accennati, le sue ombre, le sue infinite porte che si aprono verso stanze immerse nell'oscurità, i passi che la attraversano, si erge da questo momento in poi a coprotagonista (e, a tratti, protagonista assoluta) del film. Quel perverso meccanismo di infinito avvicinamento all’inevitabile a cui prima accennavo raggiunge qui il suo apice assoluto, sfociando in una tensione a tratti quasi insopportabile. Sai che qualcosa sta per accadere, sai che quel qualcosa deve necessariamente accadere, ma non accade, non ancora. Ti West gioca con lo spettatore, lo porta fino al limite, poi allenta la presa, ma solo un pochino, che non si rilassi troppo. Di certo non gli lascia il tempo per andare in cucina a prendere una birra dal frigo.
Ogni scricchiolio, ogni ombra sfuggente, ogni cambio di inquadratura non fa altro che avvicinare questo sottilissimo equilibrio al punto di rottura. E, quando ciò accade, si rivela perfino secondario rispetto a ciò che è stato fino a quel momento. Questo non significa sminuire lo scioglimento della vicenda e il suo intrinseco valore, anzi: tuttavia l’importanza del prima finisce per risultare soverchiante rispetto al pur godibilissimo dopo.
Il film offre ancora moltissimi spunti di riflessione, dalla maniacale ricostruzione degli anni Ottanta (e non solo nelle ambientazioni: il senso dell’operazione è fare in modo che il film sembri realmente girato in quel periodo) alla scelta della colonna sonora, tutti argomenti di discussione per i quali rimando alla già citata recensione.
La differenza che passa tra uno degli infiniti remake tanto in voga negli ultimi anni e questo film è la stessa che passa tra lo sbattere in faccia e lo svelare, tra l’urlare e il suggerire. Dopo i quintali di immondizia che, oltre alle strade di molte città del Sud, si riversa anche nelle sale cinematografiche nostrane, è un vero piacere imbattersi in prodotti di questo spessore. Prodotti che tuttavia non fanno altro che rimarcare drasticamente la miopia delle politiche cinematografiche in voga dalle nostra parti, grazie alle quali avremo sempre meno Case del diavolo e sempre più redivivi Enigmisti del cazzo a imbrattare di interiora di maiale piccoli e grandi schermi d’Italia.
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Succose novità su App Store
Oggi la sezione "Games" di App Store si arricchisce di tre titoli particolarmante attesi:
- Chuck Norris: Bring on the Pain! (per qualche info, vi rimando a un mio precedente post)
- Star Wars: Trench Run, che, nella miglior tradizione dei videogiochi ispirati alla celeberrima saga, ci permetterà di vestire i panni di un pilota di X-Wing
- ma soprattutto Ravensword: The Fallen King, action RPG che si candida a conquistare il titolo di miglior gioco per iPhone.
Di seguito tre video che illustrano il gameplay dei suddetti giochi: enjoy!
- Chuck Norris: Bring on the Pain! (per qualche info, vi rimando a un mio precedente post)
- Star Wars: Trench Run, che, nella miglior tradizione dei videogiochi ispirati alla celeberrima saga, ci permetterà di vestire i panni di un pilota di X-Wing
- ma soprattutto Ravensword: The Fallen King, action RPG che si candida a conquistare il titolo di miglior gioco per iPhone.
Di seguito tre video che illustrano il gameplay dei suddetti giochi: enjoy!
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sabato 14 novembre 2009
Ya Basta!
Aderite rattacci, aderite: perché la misura è colma, stracolma, staripante.
Qui l'editoriale di Antonio Padellaro apparso oggi sul Fatto quotidiano.
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giovedì 5 novembre 2009
The Damned United: il trailer italiano
Guarda il trailer Il Maledetto United su Cinetrailer.it
Tratto dall'omonimo romanzo (capolavoro) di David Peace, il film di Tom Hooper uscirà nelle nostre sale il 22 gennaio prossimo.
Il sottoscritto ha avuto modo di vederlo in lingua originale (fatevi un favore, procuratevelo anche voi): non rende ovviamente giustizia al romanzo (cosa che, date le peculiarità della scrittura di Peace, sarebbe stata pressoché impossibile anche per Kubrick), ciononostante è un buon film che mi sento di consigliare a tutti voi rattacci.
Degna di nota la prova di Michael Sheen, attore che ho avuto modo di apprezzare nell'ottimo Frost/Nixon.
Arigato.
mercoledì 4 novembre 2009
Ipse dixit
S.B. "Gli altri leader internazionali che incontro mi fanno i complimenti. Nessuno di noi, mi dicono, avrebbe potuto resistere a un terzo degli attacchi che hanno rivolto a te".
Sicuro che sia un complimento?
Sicuro che sia un complimento?
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Avatar: nuovo spot tv
Di questo blockbuster si è già parlato fin troppo. Godiamoci il filmato, sperando che la produzione, dopo aver sputtanato la bellezza di 300 milioni di dollari in effetti speciali, si sia degnata di riservarne una decina (di dollari, non di milioni, ci mancherebbe) per pagare uno sceneggiatore in grado di scrivere due pagine di trama sensata.
Gli concediamo il beneficio del dubbio?
martedì 3 novembre 2009
L'uomo che fissa le capre
Cast: George Clooney, Jeff Bridges, Ewan McGregor, Kevin Spacey, La Capra. C'è bisogno di aggiungere altro? Sì: voto 9 al titolo.
Tratto dal romanzo Capre di guerra di Jon Ronson, il film debutterà questo venerdì nelle sale italiane.
lunedì 2 novembre 2009
Dean Koontz, Il cattivo fratello: la rat-censione
Enoch "Junior" Cain, uomo affascinante e ambizioso, uccide a sangue freddo la donna di cui è innamorato per spezzare i legami con il suo passato e il presente e proiettarsi verso un futuro radioso, ricco di nuovi stimoli ed esperienze; durante lo stesso giorno una giovanissima donna, violentata anni prima dallo proprio da quell’uomo, muore dando alla luce il frutto di tale violenza; e, sempre nello stesso giorno, un'altra donna partorirà suo figlio subito dopo aver perso il marito in un incidente d'auto. Un giorno straordinario, in cui vita e morte si intrecciano in un perverso gioco di reciproco scambio, il punto di partenza per una storia che si sviluppa lungo tre direttrici destinate a incrociare i loro percorsi e che rispondono ai nomi di Junior, Angel e Bartholomew: un killer spietato e due bambini molto speciali, due bambini che condividono un dono altrettanto speciale che gli permette di “vedere le cose in tutti i modi in cui sono”, in tutti i mondi possibili.
Intorno a loro, un mondo popolato da personaggi indimenticabili tratteggiati con mano più che mai esperta: su tutti i gemelli Enoch e Jacob Lampion, zii di Bartholomew, che esorcizzano i ricordi di un passato di violenze domestiche vivendo nel costante terrore di un disastro naturale o di una terribile tragedia in grado di cancellare in un istante l’esistenza loro e delle persone che amano. E Thomas Vanadium, prete dismesso e inarrestabile detective sulle tracce di Cain, anch’egli dotato di una capacità molto particolare che lo accomuna alla coppia di bambini prodigio.
Il cattivo fratello è un romanzo complesso e ambizioso: Koontz è maestro nel manipolare a suo piacimento gli elementi costitutivi del genere, che diventano pretesto per riflessioni di stampo metafisico fondate su una visione fortemente manichea del reale e dei rapporti tra Bene e Male e sulle modalità della loro diffusione nel mondo: la teoria secondo la quale ogni nostra azione (buona o malvagia che sia) faccia “vibrare le corde del mondo”, tornando prima o poi a noi in forma notevolmente amplificata, è cardine essenziale della poetica koontziana e si pone come chiave interpretativa di tutto il romanzo.
In questo senso, Cain e la coppia Angel-Barty divengono estreme rappresentazioni del Male e del Bene, inconciliabili opposti le cui azioni hanno effetti concentrici e che non lasciano spazio a possibilità di superamento del conflitto. Ed è questo forse il principale limite di un romanzo che si fa portatore di una visione del mondo che non ammette sfumature intermedie fra un candidissimo bianco e un nero impenetrabile e assoluto.
Intorno a loro, un mondo popolato da personaggi indimenticabili tratteggiati con mano più che mai esperta: su tutti i gemelli Enoch e Jacob Lampion, zii di Bartholomew, che esorcizzano i ricordi di un passato di violenze domestiche vivendo nel costante terrore di un disastro naturale o di una terribile tragedia in grado di cancellare in un istante l’esistenza loro e delle persone che amano. E Thomas Vanadium, prete dismesso e inarrestabile detective sulle tracce di Cain, anch’egli dotato di una capacità molto particolare che lo accomuna alla coppia di bambini prodigio.
Il cattivo fratello è un romanzo complesso e ambizioso: Koontz è maestro nel manipolare a suo piacimento gli elementi costitutivi del genere, che diventano pretesto per riflessioni di stampo metafisico fondate su una visione fortemente manichea del reale e dei rapporti tra Bene e Male e sulle modalità della loro diffusione nel mondo: la teoria secondo la quale ogni nostra azione (buona o malvagia che sia) faccia “vibrare le corde del mondo”, tornando prima o poi a noi in forma notevolmente amplificata, è cardine essenziale della poetica koontziana e si pone come chiave interpretativa di tutto il romanzo.
In questo senso, Cain e la coppia Angel-Barty divengono estreme rappresentazioni del Male e del Bene, inconciliabili opposti le cui azioni hanno effetti concentrici e che non lasciano spazio a possibilità di superamento del conflitto. Ed è questo forse il principale limite di un romanzo che si fa portatore di una visione del mondo che non ammette sfumature intermedie fra un candidissimo bianco e un nero impenetrabile e assoluto.
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La perla di saggezza del giorno
"Prima o poi dovremo accettare il fatto che il genere horror viene disprezzato dai critici mainstream non per loro puzza sotto il naso, bensì perché il 90% della sua produzione è di livello infimo.
I fans vi dicono che bisogna saper apprezzare meccanismi e contenuti che afferri solo se diventi un fan nerd come loro: non credeteci o finirete a vedere quotidiane montagne di spazzatura come il sottoscritto."
E. Sciallis, dalla recensione di Non aprite quella porta: l'inizio
Amen.
I fans vi dicono che bisogna saper apprezzare meccanismi e contenuti che afferri solo se diventi un fan nerd come loro: non credeteci o finirete a vedere quotidiane montagne di spazzatura come il sottoscritto."
E. Sciallis, dalla recensione di Non aprite quella porta: l'inizio
Amen.
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