Titolo: Heavy Rain
Genere: Azione/avventura
Anno: 2010
Sviluppo: Quantic Dream
Ideazione e regia: David Cage
Sistema: Playstation 3
Ethan Mars guarda fuori dalla finestra, le guance solcate dalle lacrime come pioggia che cola lungo i vetri davanti al suo sguardo offuscato. Suo figlio Sean è lì fuori, da qualche parte. Il Killer dell'Origami ha colpito ancora e, quando la pioggia raggiungerà i 150 mm., per lui sarà troppo tardi: morirà, come suo fratello Jason, investito pochi mesi prima da un’auto, proprio davanti agli occhi di Ethan.
L’auto del detective privato Scott Shelby si ferma di fronte a un palazzo decrepito e cadente, mentre la pioggia si abbatte sul parabrezza e sulle strade, ormai ridotte a una fetida pozzanghera. Il corridoio che guida i suoi passi verso l’appartamento di Lauren, il cui figlio fu rapito e ucciso dal Killer dell'Origami, rispecchia lo squallore della facciata.
La pioggia scroscia incessante sulla testa di Nathan Jayden, agente dell’Fbi impegnato nella caccia al serial killer, mentre muove incerto i suoi passi accanto ai binari della ferrovia, alla ricerca di prove sul luogo dell’ultimo delitto. Come in tutti gli altri casi, il bambino è morto annegato e sul suo corpo sono stati trovati un origami e un'orchidea.
La stessa pioggia che scandisce la notte di Madison Paige mentre si dirige verso un motel, l’unico luogo in cui riesce a prendere sonno. L’articolo sul killer dell’origami per questa notte può aspettare.
Quattro storie, una sola domanda: chi è il Killer dell’Origami?
Qualche rivista del settore ha definito Heavy Rain “l’anello mancante tra il cinema e i videogiochi”. Di sicuro i tentativi di coniugare efficacemente i due medium sono stati molti nel corso degli anni, e in larghissima parte fallimentari: vuoi per gli obiettivi limiti tecnici delle generazioni passate di console, vuoi per una sfrenata corsa al superamento di tali limiti, che ha troppo spesso lasciato in secondo piano ciò che sta sotto la patina di stupore visivo, tali sforzi hanno avuto esiti quantomeno altalenanti.
Non so se Heavy Rain si ponga come anello mancante tra cinema e videogiochi: credo infatti che tale definizione gli vada alquanto stretta. Quel che è certo è che si tratta di un progetto estremamente ambizioso e affascinante. Tecnicamente ineccepibile, l'ultimo parto della mente di David Cage, già padre del chiacchierato Fahrenheit, riveste un'importanza notevole all’interno del panorama videoludico attuale, per molteplici motivi.
Tanto sempice nelle meccaniche di base quanto ininitamente complesso e sfaccettato nelle dinamiche di gioco, Heavy Rain è un’esperienza unica, tanto per il suo essere al di sopra di qualunque sistema valutativo quanto per il suo essere effettivamente unico per ogni videogiocatore. Le scelte che il giocatore, nei panni di Ethan, Scott, Nathan e Madison, compie durante il gioco, dalle azioni più insignificanti alle decisioni pià cruciali, influiscono in modo irrevocabile sullo sviluppo della trama. La sceneggiatura viene così plasmata da ognuno a sceconda dei suoi gusti, delle sue inclinazioni e della sua prontezza decisionale (e di riflessi) in determinate situazioni di gioco. Ogni biforcazione condurrà a un’altra biforcazione e così via, fino a un finale che dipenderà completamente dalle modalità con le quali il giocatore ha affrontato le sfide e gli ostacoli trovati sul suo cammino.
Come già accennato, da un punto di vista strettamente tecnico Heavy Rain è semplicemente sbalorditivo: grafica, sonoro, regia, sceneggiatura… L’apporto fornito da ogni parte al tutto è di livello incredibilmente alto: nonostante qualche inevitabile compromesso (alcune scelte all’interno del gioco sono giocoforza obbligate, pena l’impossibilità di proseguire) e un sistema di controllo del personaggio decisamente infelice (ma il modo in cui gli sviluppatori hanno interpretato il Quick Time Event, cuore del sistema stesso, è un capolavoro nel capolavoro), i Quantic Dream hanno creato qualcosa destinato a modificare profondamente un certo modo di concepire il videogioco più come esperienza onnicomprensiva che come intrattenimento puro. E come tale va giocato e vissuto.
Per quanto mi riguarda, Heavy Rain si colloca senza alcuno sforzo nell’Olimpo dei migliori videogiochi di sempre: se avete una Playstation 3 e non avete intenzione di giocarci siete dei pazzi fuoriosi. Se non ce l’avete, compatela, fatevela prestare, rubatela.
giovedì 25 marzo 2010
Come quando fuori piove
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lunedì 15 marzo 2010
The Descent: Part 2. La rat-censione
Titolo: The Descent: Part 2
Anno: 2009
Regia: Jon Harris
Sceneggiatura: James Watkins, J. Blakeson, James McCarthy
Cast: Shauna Macdonald, Natalie Mendoza
Sono passati due giorni dalla scomparsa delle giovani speleologhe nelle viscere della terra e le ricerche proseguono senza frutto. Quando Sarah, miracolosamente sopravvissuta alla carneficina sotterranea, viene ritrovata viva sul ciglio di una strada, lo sceriffo locale, convinto che la ragazza sia colpevole della morte delle compagne, la costringe a tornare nelle caverne sotterranee insieme a una squadra di soccorso. E bla bla bla creature bla bla sangue a fiotti…
Troppo facile interrogarsi sui motivi della realizzazione di un film come questo: sfruttare la meritatissima fama raggiunta dal gioiellino firmato da Neil Marshall per spremerne il nome fino all’ultimo centesimo. Quindi, bando alla demagogia di rito.
E’ chiaro che, come sequel, il film di Jon Harris fallisce miseramente a tutto campo, limitandosi a riproporre in modo superficiale e grossolano certe facili situazioni del suo illustre predecessore senza comprenderne minimamente le dinamiche. Più che sequel, sarebbe più corretto parlare di bruttissima copia. Lasciamo perdere: il confronto sarebbe fin troppo umiliante.
Anche volendo giudicare questo sequel come standalone, sarebbe comunque impossibile prescindere dagli evidentissimi limiti di sceneggiatura, dalla sconcertante banalità di alcune situazioni, dalla risibile caratterizzazione dei personaggi e, in fin dei conti, dalla domanda fondamentale che sorge implacabile fin dai primissimi minuti: perché? Perché mai Sarah dovrebbe accettare di tornare là sotto, dopo tutto ciò che è stato? Ed ecco arrivare subito l’inattaccabile spiegazione: amnesia, of course! E il povero spettatore cosa dovrebbe ribattere? Se si è dimenticata di essere appena riemersa da un lago di sangue, cosa può farci lui? La situazione è risolta in modo talmente frettoloso e superficiale da risultare priva della benché minima credibilità.
Vogliamo crederci? Vogliamo accettare il fatto che, nonostante ciò che ci viene mostrato alla fine di The Descent, Sarah sia sopravvissuta? Vogliamo chiudere un occhio e mezzo di fronte a un paio di altre voragini nello script, fin troppo palesi fin dai primissimi minuti? (Per chi ha visto: ma quel cane terrorizzato, da cosa scappa? Eh? Da cosa, che gli uomini talpa stanno 30 metri più in basso? E quella miniera abbandonata, da dove diavolo spunta fuori?) E sia, chiudiamo, accettiamo e immergiamoci nuovamente nelle viscere della terra accanto ai poveri malcapitati di turno. E, ovviamente, assistiamo al prevedibilissimo massacro, che si svolge senza alcun tentativo da parte del regista di creare empatia nei confronti delle vittime sacrificali. Proprio quell’empatia che aveva giocato un ruolo così profondamente decisivo nel film di Marshall, permettendoci di vivere l’angoscia e la disperazione delle quattro protagoniste sulla nostra stessa pelle, qui è totalmemnte assente, sacrificata sull’altare dello sgozzamento rapido e del sangue facile. Non che nel primo Descent il regista avesse lesinato con il sangue, anzi. Ma se per Marshall il sangue era inevitabile e dirompente esplosione di una tensione accumulatasi nell’arco di terribili minuti di attesa, Harris non vede l’ora di immergervisi e di sguazzarci allegramente, poiché, di fronte alle sue pupille che brillano di $$$, ettolitri di sangue=indicibile orrore. Sappiamo benissimo che non funziona così, vero mr. Harris?
E così, uno dopo l’altro i nostri impavidi eroi cadono inermi sotto i colpi dei mostrazzi, senza lasciare nulla di sé tranne le straziate carcasse. Ok, un paio di scene da “balzo sulla sedia” ci sono, non posso negarlo, ma trattasi di facili giochini dal successo assicurato: spengo la luce, aspetto un pochino e zac!, mostrazzo che spunta dal nulla. Effetto assicurato. Purtroppo sono poche e fatte nemmeno tanto bene, e vengono rapidamente rimpiazzate dalla pochezza del tutto.
Davvero, non saprei cos'altro dire. Lasciate perdere, guadagnerete due ore di vita.
Solo altre tre cose sulle quali è impossibile tacere (attenzione: spoiler in agguato. Di norma li evito, ma se qualcuno avesse disgraziatamente visto questa porcheria, magari si fa un paio di risate col sottoscritto):
1 – Il personaggio dello sceriffo. Non so nemmeno da che parte cominciare, forse dalla saggia decisione di ammanettarsi a Sarah? Eh be’, un vero dritto!
2 – L’incontro con la sopravvissuta Juno, trasformatasi nell’arco di due giorni in una moderna e sotterranea versione del miglior John Rambo d’annata. Priceless.
3 – Il finale che, dopo aver orribilmente scimmiottato, anzi, ricalcato, quello (falso) del predecessore, fa sorgere di nuovo, implacabilmente, la terribile domanda: ma perché?
Anno: 2009
Regia: Jon Harris
Sceneggiatura: James Watkins, J. Blakeson, James McCarthy
Cast: Shauna Macdonald, Natalie Mendoza
Sono passati due giorni dalla scomparsa delle giovani speleologhe nelle viscere della terra e le ricerche proseguono senza frutto. Quando Sarah, miracolosamente sopravvissuta alla carneficina sotterranea, viene ritrovata viva sul ciglio di una strada, lo sceriffo locale, convinto che la ragazza sia colpevole della morte delle compagne, la costringe a tornare nelle caverne sotterranee insieme a una squadra di soccorso. E bla bla bla creature bla bla sangue a fiotti…
Troppo facile interrogarsi sui motivi della realizzazione di un film come questo: sfruttare la meritatissima fama raggiunta dal gioiellino firmato da Neil Marshall per spremerne il nome fino all’ultimo centesimo. Quindi, bando alla demagogia di rito.
E’ chiaro che, come sequel, il film di Jon Harris fallisce miseramente a tutto campo, limitandosi a riproporre in modo superficiale e grossolano certe facili situazioni del suo illustre predecessore senza comprenderne minimamente le dinamiche. Più che sequel, sarebbe più corretto parlare di bruttissima copia. Lasciamo perdere: il confronto sarebbe fin troppo umiliante.
Anche volendo giudicare questo sequel come standalone, sarebbe comunque impossibile prescindere dagli evidentissimi limiti di sceneggiatura, dalla sconcertante banalità di alcune situazioni, dalla risibile caratterizzazione dei personaggi e, in fin dei conti, dalla domanda fondamentale che sorge implacabile fin dai primissimi minuti: perché? Perché mai Sarah dovrebbe accettare di tornare là sotto, dopo tutto ciò che è stato? Ed ecco arrivare subito l’inattaccabile spiegazione: amnesia, of course! E il povero spettatore cosa dovrebbe ribattere? Se si è dimenticata di essere appena riemersa da un lago di sangue, cosa può farci lui? La situazione è risolta in modo talmente frettoloso e superficiale da risultare priva della benché minima credibilità.
Vogliamo crederci? Vogliamo accettare il fatto che, nonostante ciò che ci viene mostrato alla fine di The Descent, Sarah sia sopravvissuta? Vogliamo chiudere un occhio e mezzo di fronte a un paio di altre voragini nello script, fin troppo palesi fin dai primissimi minuti? (Per chi ha visto: ma quel cane terrorizzato, da cosa scappa? Eh? Da cosa, che gli uomini talpa stanno 30 metri più in basso? E quella miniera abbandonata, da dove diavolo spunta fuori?) E sia, chiudiamo, accettiamo e immergiamoci nuovamente nelle viscere della terra accanto ai poveri malcapitati di turno. E, ovviamente, assistiamo al prevedibilissimo massacro, che si svolge senza alcun tentativo da parte del regista di creare empatia nei confronti delle vittime sacrificali. Proprio quell’empatia che aveva giocato un ruolo così profondamente decisivo nel film di Marshall, permettendoci di vivere l’angoscia e la disperazione delle quattro protagoniste sulla nostra stessa pelle, qui è totalmemnte assente, sacrificata sull’altare dello sgozzamento rapido e del sangue facile. Non che nel primo Descent il regista avesse lesinato con il sangue, anzi. Ma se per Marshall il sangue era inevitabile e dirompente esplosione di una tensione accumulatasi nell’arco di terribili minuti di attesa, Harris non vede l’ora di immergervisi e di sguazzarci allegramente, poiché, di fronte alle sue pupille che brillano di $$$, ettolitri di sangue=indicibile orrore. Sappiamo benissimo che non funziona così, vero mr. Harris?
E così, uno dopo l’altro i nostri impavidi eroi cadono inermi sotto i colpi dei mostrazzi, senza lasciare nulla di sé tranne le straziate carcasse. Ok, un paio di scene da “balzo sulla sedia” ci sono, non posso negarlo, ma trattasi di facili giochini dal successo assicurato: spengo la luce, aspetto un pochino e zac!, mostrazzo che spunta dal nulla. Effetto assicurato. Purtroppo sono poche e fatte nemmeno tanto bene, e vengono rapidamente rimpiazzate dalla pochezza del tutto.
Davvero, non saprei cos'altro dire. Lasciate perdere, guadagnerete due ore di vita.
Solo altre tre cose sulle quali è impossibile tacere (attenzione: spoiler in agguato. Di norma li evito, ma se qualcuno avesse disgraziatamente visto questa porcheria, magari si fa un paio di risate col sottoscritto):
1 – Il personaggio dello sceriffo. Non so nemmeno da che parte cominciare, forse dalla saggia decisione di ammanettarsi a Sarah? Eh be’, un vero dritto!
2 – L’incontro con la sopravvissuta Juno, trasformatasi nell’arco di due giorni in una moderna e sotterranea versione del miglior John Rambo d’annata. Priceless.
3 – Il finale che, dopo aver orribilmente scimmiottato, anzi, ricalcato, quello (falso) del predecessore, fa sorgere di nuovo, implacabilmente, la terribile domanda: ma perché?
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martedì 9 marzo 2010
La scena-cult della settimana
E' ufficiale: The Big Bang Theory è una delle migliori sit com della storia e Jim Parsons (l'attore che interpreta Sheldon Cooper) è un genio.
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lunedì 8 marzo 2010
Goodbye Case
L’altro ieri, sabato 6 marzo, ho fatto una brutta cosa: ho abbandonato un romanzo a meno di 100 pagine dalla conclusione.
E il romanzo in questione non è un libretto qualunque: trattasi del Neuromante di William Gibson, sul quale non credo ci sia bisogno di raccontare granché.
L’ho abbandonato perché non gli ho dedicato l’attenzione che merita, diluendo una distratta lettura in troppo tempo, col risultato di ritrovarmi alla disperata ricerca di un appiglio di senso che mi sfugge pagina dopo pagina, alla stessa velocità delle allucinate incursioni di Case nel cyberspazio.
Se aggiungiamo il fatto che Gibson non si fa esattamente in quattro per mettere il lettore a suo agio...
Così non va bene, ripongo il volume nella libreria (virtuale) e lascio passare qualche altra lettura.
Tornerò presto alla carica, con tutt’altro atteggiamento.
E il romanzo in questione non è un libretto qualunque: trattasi del Neuromante di William Gibson, sul quale non credo ci sia bisogno di raccontare granché.
L’ho abbandonato perché non gli ho dedicato l’attenzione che merita, diluendo una distratta lettura in troppo tempo, col risultato di ritrovarmi alla disperata ricerca di un appiglio di senso che mi sfugge pagina dopo pagina, alla stessa velocità delle allucinate incursioni di Case nel cyberspazio.
Se aggiungiamo il fatto che Gibson non si fa esattamente in quattro per mettere il lettore a suo agio...
Così non va bene, ripongo il volume nella libreria (virtuale) e lascio passare qualche altra lettura.
Tornerò presto alla carica, con tutt’altro atteggiamento.
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mercoledì 3 marzo 2010
Telegrammi horror da tutto il mondo
Prendo a prestito il sottotitolo di Splattergramma per una buona ragione: oggi, 3 marzo 2010, torna in libertà Omar Mauro Favaro, colui che, il 21 febbraio 2001, aiutò la fidanzatina Erika a massacrare madre e fratellino di lei con 97 coltellate. Ripetiamolo: 97 COLTELLATE. Il famigerato massacro di Novi Ligure.
Omar fu condannato a 14 anni di carcere: grazie all'indulto e ai soliti, vergognosi sconticini (sapete, è così devoto, un detenuto modello...), tale pena è stata ridotta a 9 anni. 5 anni di vita regalati. Più di un terzo della pena complessiva svanito nel nulla.
Più telegramma horror di così...
Omar fu condannato a 14 anni di carcere: grazie all'indulto e ai soliti, vergognosi sconticini (sapete, è così devoto, un detenuto modello...), tale pena è stata ridotta a 9 anni. 5 anni di vita regalati. Più di un terzo della pena complessiva svanito nel nulla.
Più telegramma horror di così...
lunedì 1 marzo 2010
Hell Ride: la rat-censione
Titolo: Hell Ride
Anno: 2008
Regia e "sceneggiatura": Larry Bishop
Cast: Larry Bishop, Michael Madsen, Dennis Hopper, Vinnie Jones, Eric Balfour.
Con la partecipazione di Dennis Hopper e David Carradine.
Pistolero è il leader dei Victors, gruppo di bikers fuorilegge che spadroneggia nel deserto americano. Alcol, sesso e Harley a parte, l’unico scopo della sua vita è vendicare la morte di Cherokee Kisum, una sua vecchia ragazza assassinata dal gruppo rivale dei 666ers. Insieme ai fedelissimi Gent e Comanche vagherà di bordello in bordello (cit.) per stanare e uccidere Deuce e Billy Wings, leader dei terribili motociclisti di Satanasso.
Hell Ride è un film senza senso: scritto da un mentecatto, recitato da un pupazzo affetto da paresi facciale e girato da un idiota (sempre il pupazzo di cui sopra), le uniche (ottime, tra l’altro) frecce al suo arco sono belle moto, culi marmorei e poppe da antologia.
Basato su una sceneggiatura completamente priva di logica, questo agghiacciante polpettone sponsorizzato da Quentin Tarantino in persona si trascina per 83 minuti tra smarmittate nel deserto (gran belle marmitte però eh), banalissime e inutili scazzottate, omicidi più o meno casuali, battute rigorosamente a sfondo sessuale, infarcite di, anzi, basate esclusivamente su doppi densi da far accapponare la pelle e sordidi locali inspiegabilmente popolati da donne bellissime, nudissime e perennemente in calore, sempre pronte a combattere nel fango (eh già, i bar ospitano notoriamente pozze per la lotta nel fango) e ad accoppiarsi furiosamente con qualunque orrendo biker di passaggio.
Perfino le poche scene d’azione (non sessuale) sono risolte in modo rozzo e sbrigativo: tutto sembra, anzi è, messo lì per caso, come se fosse in grado di reggersi da solo, come se bastasse prendere Michael Madsen, mettergli una motocicletta ipercustomizzata sotto le chiappe (l’unico luogo dove riesce a stare senza rendersi ridicolo) e sbatterlo nel deserto insieme a un branco di cinghiali tatuati per potersi fregiare del titolo di film citazionista, volutamente trash, consapevole omaggio ai peggio b-movie a stelle e strisce. Eh no, non è così che funziona: questo non è Planet Terror, questo è semplicemente un film di merda.
Condiamo il tutto con il nome QUENTIN TARANTINO stampato a caratteri cubitali sulla locandina (nota bene: non guardare mai più un film “presentato da”) et voillà, ecco a voi Hell Ride!
Una menzione a parte per Larry Bishop: ora, io non so da dove venga costui, cosa abbia fatto nella sua vita e quali film abbia precedentemente girato e disgraziatamente interpretato. Wikipedia ci è amico, anche se ho quasi paura di andare a verificare.
Ma osservate molto attentamente la faccia dell’uomo-cinghiale che guida l’allegra carovana con aria meditabonda: quella è l’unica espressione che costui è in grado di produrre.
Non credo ci si altro da aggiungere: guardatelo solo se le Harley Davidson sono la vostra unica ragione di vita (come per il sottoscritto di questi tempi) o se siete completamente ubriachi. E nemmeno in questo caso vi posso assicurare che lo troverete quasi accettabile.
Anno: 2008
Regia e "sceneggiatura": Larry Bishop
Cast: Larry Bishop, Michael Madsen, Dennis Hopper, Vinnie Jones, Eric Balfour.
Con la partecipazione di Dennis Hopper e David Carradine.
Pistolero è il leader dei Victors, gruppo di bikers fuorilegge che spadroneggia nel deserto americano. Alcol, sesso e Harley a parte, l’unico scopo della sua vita è vendicare la morte di Cherokee Kisum, una sua vecchia ragazza assassinata dal gruppo rivale dei 666ers. Insieme ai fedelissimi Gent e Comanche vagherà di bordello in bordello (cit.) per stanare e uccidere Deuce e Billy Wings, leader dei terribili motociclisti di Satanasso.
Hell Ride è un film senza senso: scritto da un mentecatto, recitato da un pupazzo affetto da paresi facciale e girato da un idiota (sempre il pupazzo di cui sopra), le uniche (ottime, tra l’altro) frecce al suo arco sono belle moto, culi marmorei e poppe da antologia.
Basato su una sceneggiatura completamente priva di logica, questo agghiacciante polpettone sponsorizzato da Quentin Tarantino in persona si trascina per 83 minuti tra smarmittate nel deserto (gran belle marmitte però eh), banalissime e inutili scazzottate, omicidi più o meno casuali, battute rigorosamente a sfondo sessuale, infarcite di, anzi, basate esclusivamente su doppi densi da far accapponare la pelle e sordidi locali inspiegabilmente popolati da donne bellissime, nudissime e perennemente in calore, sempre pronte a combattere nel fango (eh già, i bar ospitano notoriamente pozze per la lotta nel fango) e ad accoppiarsi furiosamente con qualunque orrendo biker di passaggio.
Perfino le poche scene d’azione (non sessuale) sono risolte in modo rozzo e sbrigativo: tutto sembra, anzi è, messo lì per caso, come se fosse in grado di reggersi da solo, come se bastasse prendere Michael Madsen, mettergli una motocicletta ipercustomizzata sotto le chiappe (l’unico luogo dove riesce a stare senza rendersi ridicolo) e sbatterlo nel deserto insieme a un branco di cinghiali tatuati per potersi fregiare del titolo di film citazionista, volutamente trash, consapevole omaggio ai peggio b-movie a stelle e strisce. Eh no, non è così che funziona: questo non è Planet Terror, questo è semplicemente un film di merda.
Condiamo il tutto con il nome QUENTIN TARANTINO stampato a caratteri cubitali sulla locandina (nota bene: non guardare mai più un film “presentato da”) et voillà, ecco a voi Hell Ride!
Una menzione a parte per Larry Bishop: ora, io non so da dove venga costui, cosa abbia fatto nella sua vita e quali film abbia precedentemente girato e disgraziatamente interpretato. Wikipedia ci è amico, anche se ho quasi paura di andare a verificare.
Ma osservate molto attentamente la faccia dell’uomo-cinghiale che guida l’allegra carovana con aria meditabonda: quella è l’unica espressione che costui è in grado di produrre.
Non credo ci si altro da aggiungere: guardatelo solo se le Harley Davidson sono la vostra unica ragione di vita (come per il sottoscritto di questi tempi) o se siete completamente ubriachi. E nemmeno in questo caso vi posso assicurare che lo troverete quasi accettabile.
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Cinema,
Hell Ride,
Recensioni
Ratto desaparecido?
Mi scuso con i miei affezionatissimi (?) lettori per la prolungata latitanza, in questi giorni ho avuto la testa altrove, conto di rimettermi in carreggiata al più presto.
In ogni caso, sono in arrivo le seguenti rat-censioni:
Cinema: Hell Ride
Libri: William Gibson, Neuromante (anche se, a dirla tutta, su un libro così non saprei veramente cosa scrivere, né da che parte cominciare... ci proverò)
Videogiochi: Heavy Rain (e qua un'anticipazione ve la posso dare: trattasi di capolavoro)
Hail to the Rat.
In ogni caso, sono in arrivo le seguenti rat-censioni:
Cinema: Hell Ride
Libri: William Gibson, Neuromante (anche se, a dirla tutta, su un libro così non saprei veramente cosa scrivere, né da che parte cominciare... ci proverò)
Videogiochi: Heavy Rain (e qua un'anticipazione ve la posso dare: trattasi di capolavoro)
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