Mentre morivo
Titolo originale: As I Lay Dying
Edizione: Gli Adelphi
232 pagine, € 9
Addie Bundren sta morendo: riuniti intorno al suo capezzale, il marito Anse e i cinque figli si preparano a trasportarne la salma nella lontana Jefferson, contea natale della donna, rispettando così il suo desiderio di essere sepolta nella sua terra. Caricata la bara su uno sgangherato carro che sembra sempre sul punto di cadere a pezzi, i Bundren si mettono in viaggio. Ma il carro non è l’unico a rischiare di sgretolarsi: l’odissea verso Jefferson, funestata da un diluvio che mette fuori uso strade e ponti e accompagnata dall’odore di morte che emana il cadavere, diviene un catalizzatore di sventure e fa esplodere tensioni e contraddizioni che lacerano i personaggi, ognuno depositario di un doloroso segreto, ognuno corroso da sopiti rancori e inconfessabili desideri.
Mentre morivo è un romanzo dalla complessità a tratti disarmante: al di là del continuo ricorso a elementi simbolici che sicuramente ho colto solo in minima parte (a partire dalla scelta del titolo, a quanto pare un esplicito riferimento all’Odissea omerica), è il modo in cui è strutturato a rappresentare una sfida per il lettore. Come scrive Alfredo Giuliani in quarta di copertina della presente edizione, La struttura e lo stile di Mentre morivo esercitano un fascino, a volte esasperante, soltanto se il lettore accetta la sfida di mettere in atto tutta la sua disponibilità percettiva. Bisogna cogliere insieme l’assurdo, il comico, il simbolico, l’inconcluso, la ridicolaggine che incombe sulla tragedia, l’enigma, che non si risolve.
Su un canovaccio di base semplice e lineare si innesta appunto una complessa struttura narrativa che fa del flusso di coscienza e del continuo intrecciarsi di monologhi il mezzo con cui imprigionare il lettore nelle maglie del racconto. I pensieri dei personaggi, le loro paure, i loro malcelati e meschini obiettivi personali, giungono a noi a briglia sciolta, senza filtro alcuno: ci investono con la stessa forza con cui il fiume spazza via il ponte che dovrebbbe permettere ai Bundren di giungere a Jefferson prima che il cadavere di Addie inizi ad attirare uno stormo di famelici avvoltoi. Le difficoltà linguistiche, se così possiamo definirle, non finiscono qui: i Bundren sono infatti rozzi bifolchi, e come tali parlano e pensano. Prendiamo Vardaman, il bambino cui viene sbattuta in faccia la morte. Mettetevi nei suoi panni: come potrebbe reagire? Come potrebbe elaborare lo shock? Come potrebbe esprimere a parole l’orrore di cui è testimone? (Mia madre è un pesce)
Ma vediamo di conoscere meglio i Bundren. Partendo proprio da Addie, colei che ha sacrificato se stessa a un uomo che non ha mai amato e a cui ha dato quattro figli perché così doveva essere, perché questo è ciò che ci si aspettava da lei. Il quinto, Jewel, emblematicamente prediletto, è frutto di un tradimento mai confessato. L’unico monologo che la vede protagonista è un’appassionata e dolorosa difesa “linguistica” della donna, il cui sangue si fonde con la terra, la sola in grado di identificare le cose e il dolore col loro vero nome tanto da non aver alcun bisogno di nominarli; all’estremo opposto l’egocentrismo maschile, che si spinge fino al punto di dover inventare dei termini per tentare di dare forma a ciò che non conosce. Ne riporto uno stralcio:
Così mi presi Anse. E quando mi resi conto di avere Cash, mi resi conto che vivere era terribile e che quella era la risposta. Fu allora che capii che le parole non servono a nulla; che le parole non corrispondono mai neanche a quello che tantano di dire. Quando nacque mi resi conto che maternità era stata inventata da qualcuno che doveva trovarle una parola perché a chi i bambini li ha avuti non gli importava nulla se c’era una parola o no. Mi resi conto che paura era stata inventata da qualcuno che non aveva mai avuto paura; orgoglio, da qualcuno che di orgoglio non ne aveva mai avuto… Anche lui [Cash] aveva una parola. Amore, lo chiamava. Ma era da un pezzo che avevo fatto l’abitudine alle parole. Sapevo benissimo che quella parola era come tutte le altre: semplicemente una forma per riempire un vuoto; che quando fosse venuto il momento, non ci sarebbe satto bisogno di una parola, per quello, più che per l’orgoglio o per la paura.C'è Anse, il capofamiglia inetto e cocciuto come un mulo, che metterà a rischio l’incolumità di tutta la famiglia pur di tenere fede alla promessa di seppellire la moglie nel suo paese natio. Una promessa che è più un ingombrante fardello di cui liberarsi a ogni costo che un doloroso pegno d’amore.
C’è Darl, il reduce di guerra, l'unico a essere uscito dalla contea di Yoknapatawpha. Darl è istruito, Darl è diverso. A lui Faulkner affida lo spazio più ampio e le rifessioni più lucide. Una lucidità che, consapevole della totale assurdità della situazione, sfocia ben presto in un tragicomico distacco e nella follia, reale o presunta. Perché nessuno di noi è del tutto pazzo e nessuno del tutto normale finché il resto della gente lo convince ad andare in un senso o nell’altro. E’ come se non fosse tanto quello che uno fa, ma com’è che lo guarda la maggioranza di noi quando lo fa.
E Cash, che asse dopo asse, chiodo dopo chiodo, costruisce pazientemente la bara in cui riposerà il corpo della madre, proprio sotto i suoi occhi, secondo il suo volere. Il rumore della sua sega accompagna tutta la prima parte del racconto, come un messaggero di morte imminente che incombe sulla casa.
Ci sono Jewel, il mezzosangue orgoglioso e ribelle, e Dewey Dell, unica femmina, rimasta precocemente (e segretamente) incinta, desiderosa di liberarsi al più presto del fardello che porta in grembo, senza peraltro avere la minima idea di come sia possibile farlo. E, infine, il piccolo Vardaman, davanti ai cui occhi l’orrore assume la sua forma più cruda e tangibile, come le viscere di un pesce.
Ognuno di loro ci racconta una storia che diviene tante storie: la storia di un dolore condiviso e le storie di singoli segreti meschini ed egoistici. Ognuno di loro calpesta una terra spietata che non offre riparo né consolazione a chi nasce sconfitto. Ognuno di loro è a suo modo testimone e narratore di un’odissea in cui il tragico si fonde col comico, l’assurdo col grottesco.
E poi c’è la scrittura di Faulkner, mimetica e viscerale. Una scrittura densa, ad ampie pennellate, a tinte forti, accese, che dipingono sulla pagina immagini di rara potenza drammatica ed evocativa. Non ho avuto modo di confrontarmi con il testo originale, ma mi sembra che la difficile sfida rappresentata dalla traduzione sia stata affrontata da Mario Materassi con una cura e una passione encomiabili.
Dicevo nel post precedente che mi sarebbe piaciuto riuscire a trasmettere non tanto ciò che Mentre morivo mi ha comunicato, quanto il modo in cui l’ha fatto. Mi rendo conto di essermi posto un obiettivo un po’ troppo ambizioso: spero di avervi invogliato, anche solo incuriosito, a scoprire un romanzo straordinario e un autore di cui sono certo che tornerò a parlare presto su queste pagine.